Recensione di 1920
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Achille Lauro, a bordo della sua DeLorean, dopo aver sperimentato la trasgressione del 1969, in seguito alla glitterata esperienza nelle discoteche del 1990, decide che, prima di ritornare saldamente nel presente, deve compiere un ulteriore viaggio temporale-musicale entrando in un jazz club del 1920.
1920, infatti, è l’ultimo capitolo della serie di dischi caratterizzata dalle molteplici atmosfere del XX secolo e come si intuisce dal nome dell’album, lo zeitgeist che Achille questa volta, come ci aveva fatto intendere da tempo con le sue Instagram Stories, decide di incarnare è quello dei “ruggenti anni’ 20”.
Ciò che il signor Lauro De Marinis, accompagnato dall’incredibile ed inedita Untouchable Band (orchestra composta da grandi professionisti, nata per questo disco, che richiama la pellicola gangstar ritraente gli anni ’30 del regista De Palma), porge agli ascoltatori è l’ennesimo esperimento musicale che assume le fattezze di una serata in un club di gentleman rapprese e fonofissate in un disco composto da 8 brani, per un totale di 25 minuti circa, in cui ospita due esponenti della musica pop mainstream (Gigi D’Alessio e Annalisa) e due del rap (Izi e Gemitaiz) mettendo ancora una volta in dialogo due emisferi musicali.
A quasi un anno dall’incredibile performance di Sanremo, Achille continua a fregarsene e, in barba a quelli che sostenevano che la sua non fosse “vera musica”, decide di mettere da parte i suoi eccentrici completi e con un taglio di capelli retrò imbrillantinato, un impeccabile vestito intero gessato, sale prepotentemente sul palco con la decisa intenzione di rievocare un genere, ora particolarmente di nicchia, come il jazz. La coraggiosa scelta fatta non segue nessuna logica di mercato ma i gusti musicali di un artista intenzionato a comunicare soltanto tramite la sua logica di gusto.
Il signor De Marinis, con in mano un microfono old style da karaoke, restituisce al pubblico italiano delle sonorità incredibilmente ricercate, caratterizzate dallo swing degli anni ’20 restituito con precisione, coadiuvato da coretti dell’orchestra molto arditi, su cui campeggia il nostro in tutta la sua solita irriverente sfrontatezza mai priva di eleganza.
Se con l’ascolto di “My Funny Valentine” ci trascina, dall’alto della nostra contemporaneità, in un’atmosfera avvicinabile ad una stanza confusa dai fumi dei sigari, con rumori fragorosi di signori in giacca e cravatta intenti a giocare a poker e gambe di belle signore che sfilano con incantevoli vestiti, cerchietti in piume ed elegantissime giarrettiere, in “Chicago” ci obbliga a correre in pista per ballare spensieratamente. Le tonalità di grigio, nero e bianco, evocate dai brani si mischiano velocemente l’una all’altra, guidandoci in un’incontrollata e scatenata danza di corpi che, nel minuto insieme di brani inediti, strizza l’occhio alla cultura italiana coverizzando un pezzo iconico, e mai come oggi attuale, come “Tu vo fa l’americano”, insieme all’azzeccato Gigi D’Alessio. Emblematica e chiara la riproposizione di “Cadillac” in cui al posto delle chitarre elettriche di 1969 compaiono sax, trombe e tamburi che guidano ritmi incalzanti. A darci il congedo dalla serata jazz c’è “Jingle Bells Rock” con Annalisa, ideale per il periodo di pubblicazione di 1920, funzionale ad un’atmosfera natalizia difficilmente percepibile nell’aria ma poco indicata per un video ufficiale. Due menzioni importanti una d’obbligo e una d’onore: la prima, in cui Lauro, dopo un’energica performance, chiede al suo uditorio pubblico di unirsi in un lento sul suo struggente e romantico brano “Piccola Sophie”, in cui, in un’architettura di climax ascendenti rinforzata da iperboli, supplica il ritorno della sua amata promettendole doni inesistenti e irrealizzabili.
La seconda menzione invece, quella d’onore, va fatta alla ripresa e alla reinterpretazione del brano “Bvlgari”, originariamente presente in “Pour L’amour”; il brano qui riproposto è la scelta più coraggiosa e pretenziosa fatta in 1920 poiché si chiede all’orchestra di jazzare una musica originariamente sperimentale nata come samba-trap preparandola ad ospitare due rapper tecnici e imprevedibili come Izi e Gemitaiz. I due campioni del genere, non nuovi ad interpretazioni singolari e innovative, si esibiscono portando una roboante rappata inedita che non stona ma che rinforza il brano dando così un risultato finale che è sinonimo di eclettismo puro.
Sgombrata la sala, puliti i tavoli dalle cicche di sigaretta, il viaggio di Lauro nei ruggenti anni ’20 si conclude dolcemente e l’artista ritorna, ricco e forte di nuovi stimoli, nel presente musicale. La sua gavetta discografica e musicale nel mainstream è così compiuta, i suoi manufatti musicali dimostrano a tutto il pubblico la sua competenza e la sua acutezza nel percepire e nel riproporre la musica. La poliedricità e la polimorfia di Lauro diventano particelle e si racchiudono in questa trilogia dai toni evenemenziali e situazionali; evenemenziale perché, in maniera quasi cronachistica, riprende tutto ciò che più ha amato del vecchio secolo riattualizzandolo in vesti tutte nuove, situazionale perché ha regalato ai suoi ascoltatori un disco (1969, 1990 e 1920) adatto ad ogni momento con brani aderenti ad ogni atmosfera e sentimento.
La carica artistica di tutto il momentaneo cofanetto targato “900” di Lauro si incanala in serbatoi a pronto utilizzo funzionali ad esaurire una completa mappatura emotiva di un qualsiasi individuo grazie alla grande quantità di influenze, di stati emotivi e di generi musicali messi a contatto.
Al di là dei gusti, siamo davanti ad un lavoro artistico di alto livello che non si presta all’immediato consumo ma che, in mole corposa, si presenta e si stanzia come un’opera da metabolizzare e da assimilare nel tempo e nelle circostanze, sovrapponendolo ed utilizzandolo come sottofondo o voce narrante della quotidiana contingenza.
Quale sarà il prossimo lido musicale verso cui Achille Lauro è diretto non lo sappiamo, c’è chi ipotizza che l’artista romano si butterà totalmente sul pop, chi invece si auspica un ritorno nell’ambiente Hip Hop, sta di fatto che è impossibile intercettare un tale bolide impazzito pronto a demolire qualsiasi logica di produzione e pubblicazione. Non ci resta quindi che far sedimentare questa cospicua trilogia, valorizzarla pian piano, farla caricare di senso e farla esplodere, di tanto in tanto, nei momenti più appropriati per restituire alla musica stessa quell’aura artistica incorruttibile che ben si sposa ad ogni tempo.
Di Riccardo Bellabarba, con la gentile collaborazione di Marco Palombelli
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