La carriera di Achille Lauro è una corsa sulle montagne russe, o più nello specifico la frazione in cui la pista diventa una parabola in cui si sale fino all’apice, per poi scendere a picco. L’adrenalina dopo la discesa è passata da un po’ di tempo, e “1969” è stato il momento della realizzazione: la corsa è arrivata al termine.
Il 1969, l’anno dell’allunaggio e della strage di Piazza Fontana, l’anno che saluta gli anni Sessanta per entrare poi nel decennio successivo, in un periodo fatto di tensioni, ma anche rivoluzioni. È proprio per questo che Achille Lauro sceglie il 1969 per annunciare la sua rivoluzione a 50 anni di distanza: “Gli anni 60 e 70 sono stati tempi di grande cambiamento e di voglia di libertà. In copertina ci sono James Dean, icona di gioventù sregolata; Marilyn Monroe, citata in Rolls Royce; Jimi Hendrix, punto di riferimento musicale; ed Elvis Presley, simbolo di libertà”.
Questo disco, uscito nel 2019, è considerabile un po’ come un secondo album d’esordio per l’artista romano, perché è un Achille Lauro completamente diverso. Dopo l’epopea del ragazzo madre, iniziata già da “Young Crazy EP” e “Dio C’è“, Achille vuole risalire fino all’apice dopo la discesa adrenalinica, ma non sarà così.
Con “1969” Achille Lauro si presenta al grande pubblico come un artista completamente nuovo, che non ha nulla a che vedere con quello che abbiamo visto finora. “Pour L’Amour” ha segnato l’inizio del cambiamento, ma “1969” è il punto di non ritorno: si compie la metamorfosi di Achille Lauro, il quale cambia pelle come un serpente e si lascia alle spalle una muta che puzza di strada, in favore di una nuova che sa di Chanel.
Si sente spesso parlare di artisti che “si spogliano” nei loro testi, in riferimento al fatto che raccontano del loro lato più personale. Per Achille Lauro è diverso. Lui non si è mai dovuto spogliare perché ha iniziato che non aveva niente a nascondere ciò che realmente era, lui che ha sempre raccontato di quando ha vissuto dove Dio non c’era. “1969”, come già detto in precedenza, è una metamorfosi, seppur incompleta (serviranno altri dischi).
Achille non si spoglia, ma si veste in abbondanza di abiti e beni firmati, simbolo di un successo raggiunto e specchio di un immaginario che richiama l’opulenza delle Rockstar. Il tema è inflazionato, ma Lauro riesce a renderlo suo e a farlo mainstream per il grande pubblico.
“Il rock’n’roll è uno stile di vita, una figata: qui c’è una fusion con punk e hip hop. Leggerezza e malinconia sono le mie due macro-sensazioni: cerco semplicemente di fermare certi momenti, gli alti e bassi della vita. Scrivere e registrare è come fare sedute di analisi. Con Rolls Royce volevo un pezzo ‘generazionale’, che parlasse a tutti”.
Già, “Rolls Royce”. Una vita così, una fine così. Cliché da “I migliori muoiono a 27” verrebbe da dire. L’immaginario però funziona, complice anche il punto di rottura che è stato Sanremo. “Rolls Royce” è forse il pezzo più importante della sua carriera, perché ha reso Achille Lauro noto a tutti, non più solo un punto di riferimento per le nuove generazioni.
Raccontata così, sembra che “1969” sia un disco Rock’n’Roll. Non è proprio così. Ciò che ne è uscito fuori è una continua contrapposizione tra ciò che Achille Lauro era e ciò che sarà. In un testo lascia un testamento, mostrandosi per ciò che era, in quello successivo si inventa una ballad che l’Achille di “Harvard Mixtape” non si sarebbe neanche immaginato di fare.
“1969” è questo, una montagna russa tra alti e bassi in cui l’artista romano realizza brani tra i più struggenti della sua carriera e sperimentazioni all’opposto.
“C’est la vie” e “Scusa” sono tra i brani più profondi della carriera di Achille Lauro. Non c’è Rap, ma almeno l’identità rimane intatta e anche i vecchi fan riescono a riconoscerlo. Ciò che rende “1969” l’ultima opera dal sapore autentico è proprio questa confusione che genera: i brani sono così diversi dal passato, ma anche nella sperimentazione e nella diversità è super riconoscibile l’identità di Achille. “Sexy Ugly” ne è l’esempio lampante.
“Fashion, trendy, Basquiat, Bansky
Achille Lauro – Sexy Ugly (1969, 2019)
Giungla, Bear Grylls, è Dakar, è rally
È Bohemien, è trendy, è Baudelaire, è Fendi
È Fight Club, è Brad Pitt, è tragedia, è Shakespeare
Chi vuol vivere per sempre, no
Cosa vuol dire per sempre non so
È solo un momento dolce
Stringimi ancora a te, a te ancora un po’”
Qui giace l’ultimo Achille Lauro che i fan del Rap italiano portano nel cuore. Gli ultimi vagiti di un pioniere e di uno degli ultimi testimoni dell’ultima ondata trap. C’è un po’ di tutto e un po’ di niente: questo è il pregio e il difetto di “1969”. Sacro e profano, sperimentazioni, ballad e romanticismo, ma il risultato è confuso. “1969” di Achille Lauro non è né carne né pesce, è solo una transizione. La farfalla è divenuta bozzolo.
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