Gli studi di matrice scientifica sostengono che le paure innate sono due: la paura di cadere e quella dei rumori forti. Tutte le altre fobie che abbiamo, a quanto pare, le apprendiamo tramite l’interazione con l’ambiente circostante, tramite le credenze tramandate e tramite il nostro patrimonio genetico in cui si sono inscritte le paure dei nostri avi (allego l’articolo per chi fosse curioso http://edition.cnn.com/2015/10/29/health/science-of-fear/).
È di questo che Ernia ci parla nel suo nuovo disco, di paura, anche se il titolo dell’album cerca di negarla, Ernia paura ce l’ha, eccome. Secondo Freud, quando neghiamo, per un micro-istante affermiamo (se dici “non mi piace”, per un momento dici “mi piace”) perché il nostro cervello pensa soltanto in maniera affermativa (es. ora io ti dico “non pensare all’elefante rosa” e sono sicuro che tu ora ci stai pensando). Infatti “Io non ho paura, è un modo per farsi forza“.
Prima dell’uscita del disco, la sua paura era proprio quella di non essere capito dal pubblico, di avere stancato, di non poter fare meglio di Gemelli, di essere classificato solo come l’autore di Superclassico, un brano più famoso dell’artista stesso. Tutta la promo del disco ce lo ha fatto intuire: dal documentario di Esse Magazine all’edizione speciale di Rolling Stones in cui, più che fare una monografia del disco, si riportano delle sue interviste, ma lasciando spazio a interventi di writer o altri artisti che della paura ne hanno fatto quasi un mestiere.
La copertina dell’album, ispirata al romanzo di Niccolò Ammaniti (“Io non ho paura”,2001), trasmette anche visivamente tutto il concept. Nel romanzo, anche film, un bambino di nove anni trova un suo coetaneo prigioniero in una buca ed è un po’ quello che succede dal primo minuto del disco con tutti noi che ci apprestiamo ad ascoltarlo: Ernia sa che i suoi coetanei sono tutti, per un motivo o per un altro, imprigionati “nella loro buca” quindi cerca di lanciarci una corda (metaforicamente il disco) per risalire.
La parola “paura” deriva da latino pavors,paors, ma la cosa interessante è che questo lemma è da ricondursi alla radice indoeuropea pat- che, letteralmente significa “percuotere” ed in senso figurato “incutere timore, atterrire”. È da qui che secondo me bisogna partire, per analizzare il disco; dal basso, dal nostro basso, e risalire tramite la corda che l’artista ci tende.
Ernia era già maturo nella scrittura fin dai suoi primi brani, ma ciò che emerge oggi, dal disco, è che abbiamo davanti un interprete unico, identitario e forte del rap e della cultura del rap italiano.
Capita, quando diciamo parola “rapper” che sommiamo semanticamente ad essa anche il ruolo del producer; il rapper scrive, rappa, il producer fa musica (sì i ruoli sono più fluidi, ci sono anche i ghostwriter ecc…, ma insomma, ci siamo capiti), e il primo, per essere tale, deve sapere usare le parole. Un rapper può avere tutti i tatuaggi che vuole, mettere tutti i vestiti che vuole, ma se, con qualsiasi espediente, non sa comunicare con le parole, il rapper fallisce nel suo mestiere; Ernia invece in questo sa il fatto suo.
Ernia ha la capacità di far rimanere la scrittura sul bordo di un giudizio non sentenzioso ma riflessivo, nel senso che ti permette di ri-fletterti, ri-piegarti su te stesso quando lo ascolti. In questo album, come mai prima d’ora, emergere una parvenza di scrittura obliqua “vedo-non vedo” capace di fornire elementi di realtà basici con cui l’ascoltatore può ricostruire autonomamente le proprie narrazioni mentali completabili tramite i propri dettagli.
L’interpretazione che dà ai testi che viene fuori in maniera limpida in alcuni brani (“Bu!”, “Cattive Intenzioni”, “Non Ho Sonno”, “L’Impostore”) tramite la compartecipazione emotiva apportata. Conferendo al suo flow e alla sua pronuncia prosodica una forza recitativa, il rapper, nei suoi testi, diventa una persona-attore capace di muoversi in uno scenario tratteggiato, ammiccato dagli elementi figurativi sparsi qua e là all’interno del brano.
La conoscenza lessicale della lingua permette di affrescare meglio ciò che si vuol raccontare e gli espedienti scelti, dentro al disco, lo testimoniano. Ernia ama, per trasferire qualcosa a chi lo ascolta, le narrazioni, le esposizioni dei suoi fatti in maniera critica e i vari modi di farlo: i flussi di coscienza si ritrovano in quasi ogni traccia, le sue storie anche, l’espediente della favola (utilizzare animali con caratteristiche antropomorfe per interpretare il mondo) usato l’ultima volta in “Un Sasso Nella Scarpa” ricompare fugacemente come lo storytelling, che lo usa da talmente tanto tempo da riuscire a fletterlo a suo piacimento dedicandogli intere canzoni, una strofa, o a volte condensandolo in un solo verso.
“Buonanotte“, oltre a meritare una menzione d’onore (e forse meritare un articolo a sé), è la dimostrazione e l’apice di quanto appena detto. In questo brano Ernia, non si ferma a dimostrare di saper narrare, scegliere le parole dai giusti accenti tonici, delicati ma calcati dalla voce, pronti ad adagiarsi sulla base per raccontare, in-trattenendo e trascinando qualcuno che non ha mai vissuto un’esperienza tanto struggente come quella dell’aborto. Le rime interne posizionate a metà e alla fine del verso riescono a far suonare tutti gli accenti e far spostare il punto prospettico dell’ascoltatore che riesce a interiorizzare talmente tanto un dolore estraneo che, dal momento dell’ascolto del brano, cambia la percezione di tutto il disco. Ad avvalorare e a irrobustire ancor di più il brano, è il breve commento alla sua vicenda che ricompare alla fine della prima strofa di “Rose & Fiori” (E scusami, non è egoismo il mio quando ti dico/ “Come posso assicurargli il meglio, avessi un bambino?”/Se di questi tempi io, di questi tempi non mi fido) come a dimostrare che quello non fosse un evento a sé stante, ma quasi un pensiero ricorrente.
Il disco, nonostante le 14 tracce, infatti ha un’ossatura robusta, una postura dritta, capace di declinare la paura sotto tanti punti di vista, con tanti toni, sfumature e una coerenza tematica che richiama anche i precedenti lavori; si passa dall’ammettere che tutti hanno paura, alla paura che si può incutere, alla paura dell’incompletezza, del futuro (ricorrente nella sua discografia) di coppia e del singolo, la paura dei commenti fatti a cuor leggero, del non saper reggere le aspettative e molto altro ancora.
Le ballate si alternano a brani che, insieme alle venature di critica sociale, smorzano i toni e sono anche utili a ricordarci che Ernia è uno dei pochi artisti post-2016 che ancora si mantiene ancorato alla matrice Hip Hop e Rap nascondendo in ogni lavoro richiami testuali, o ritmici, a flow storici, riplasmandoli però a modo suo.
La stessa fluidità dell’artista si rimanifesta nel disco stesso che si fa contenitore di generi: l’R&B di brani più leggeri riesce a stare in piedi da solo (vedi “Il Mio Nome” in cui compare il campione di “Say My Name” delle Destiny’s Child) e a mischiarsi al rap più picchiato (vedi “Tutti Hanno Paura” con Marco Mengoni, uno degli artisti R&B italiani più forti di sempre, che accompagna tre strofe rap con un ritornello d’altissimo valore canoro). Compaiono le chitarre ora rock ora indie, ora blues, così come le percussioni, di numerosi generi; Sixpm e Junior K hanno fatto un lavoro impressionante dal punto di vista strumentale.
L’album porta con sé la capacità di fotografare e incidere su disco un sentimento collettivo quasi impossibile da esorcizzare e lo fa in una maniera incredibilmente capillare: ci sono hit di tutte le salse, adatte a qualsiasi tipo di fruizione, capaci di piantare dei semi in ogni contesto – “Acqua Tonica” con Geolier spaccherà Tik Tok, segnatelo- , da quello più social a quello più personale, con brani da condivisione pubblica a brani da ascoltare intimamente.
Dietro a tutto il tessuto narrativo e musicale si nasconde la reale possibilità di aver realizzato un prodotto pronto ad entrare negli spacchi fertili delle cortine di cemento d’attenzione odierne che, con l’audacia di provare a mettere radici negli ascoltatori, può ambire a diventare una pietra fondante, di alto consumo ma anche di lunga durata, della sua discografia. Più che “Ernia quello di Superclassico”, spero che venga ricordato come Ernia, un rapper che con “Io non ho paura” ha fatto un classico istantaneo.
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