I miei ultimi 20 giorni sono stati caratterizzati da una miriade di cose: l’arrivo della primavera, l’inutilità dei “Fridays for the future”, e il fatto che non riuscissi a togliermi dalla testa i ritornelli dei Coma_Cose. L’8 Marzo, la giornata delle donne, è stato l’ultimo dei miei pensieri, usciva infatti “Hype Aura”, il loro disco d’esordio – o meglio capolavoro. Il suo arrivo è stato preceduto dagli estratti “Via Gola” e “Granata” pubblicati nei mesi antecedenti, che come assaggini di pecorino offerti dal banco formaggi del Conad me li sono goduti fino all’ultima briciola.
La vincente unione tra la timidezza di California e l’esperienza di Fausto Lama è riuscita a partorire 9 pezzi ricchi di emozione, estro e malinconia. Calma, calma, la malinconia è un aspetto positivo, in questo caso; si lega quasi alla nostalgia, al ricordo felice di momenti altrettanto felici vissuti dal duo durante il tour estivo con cui hanno girato la penisola in lungo e in largo, organizzando vari sold out nonostante i pochissimi pezzi proposti. Durante questo viaggio hanno avuto l’opportunità di prendere un po’ di mare e di portarlo fino a Milano, creando un contrasto emotivo con la nebbia e la tranquillità dei Navigli: una contrapposizione percepibile dal caldo-freddo che accompagna l’ascoltatore in un viaggio onirico, surreale.
Hanno dato la conferma del loro stile a metà tra l’innovativo e l’attempato, con cui si sono proposti sin dagli albori della loro fusione. Si tratta di una miscela contenente hip-hop, cantautorato, indie all’italiana, con il fantasma di Battisti che aleggia, intuibile tra le note alternative del duo.
I suoni tiepidi della costa non riescono però a scavalcare la Milano onnipresente nelle loro canzoni, una sorta di mito visto con gli occhi di due provinciali ambiziosi, spinti come da un profumo invitante a incontrarsi e stravolgersi la vita l’un l’altro. I due si sono trovati subito in sintonia, in quel che era il loro rapporto di colleghi, e cominciando a frequentarsi hanno compiuto questo grande passo, mettersi in gioco. La loro intesa si nota subito nelle canzoni dell’album che quasi sembrano veri e propri dischi a sé. L’abbondanza di suoni e ritmi, variando più volte all’interno delle canzoni stesse, danno un senso di varietà evitando anche il più piccolo bagliore di noia.
Fin qui potrebbe anche sembrare la solita proposta musicale che, discostandosi un minimo dalla moda, viene idolatrata come “il futuro” o “l’innovazione”; per sviare ciò i Coma_ cose hanno dato un ulteriore tratto al loro stile, rendendosi unici e inimitabili: i giochi di parole. Se non l’aveste notato, persino il nome dell’album è un gioco di parole (Hype Aura = Hai Paura). Comprendere questo gioco, oltre che interessante, è fottutamente divertente. Alcuni ti fanno ridere, altri pensare, altri ancora li comprenderai dopo il decimo ascolto, senza mai annoiarti.
Ma non è questo l’unico punto che fa di Hype Aura un disco assolutamente non da primo ascolto; essendo molto personale, sembra quasi che Cali e Fausto se lo siano dedicato l’un l’altro. Si dedicano piccole storie legate alla loro convivenza, storie apparentemente incomprensibili ma che, dopo svariati ascolti, rendono l’ascoltatore parte integrante di esso, coinvolgendolo nel cambiamento e nelle forti emozioni che hanno caratterizzato la loro unione.
Il “capolavoro” inizia con “Granata” che, con l’idea di
anticipare il mood del disco, rimane con prepotenza in testa a chi ascolta;
molto simile –come struttura, bpm e metrica- a “Post Concerto”, ma è
meravigliosa comunque. “Mancarsi” porta la malinconia delle notti piovose della
capitale della moda, unendo suoni e batterie alla Sanremo con un linguaggio
urban. “Beach Boys Distorti”, al primo ascolto un pugno in un occhio, è un
piccolo scorcio di vita che il duo ha voluto condividere. “Via Gola” ricorda la
mattina, la carica e l’ambizione, oltre che l’hangover per l’after del giorno
prima. “A Lametta”, dopo un’intro che ricorda i Beatles, è una dedica di Lama a
California. “San Sebastiano” porta un po’ di suoni lunghi e psichedelici
all’interno dell’album, oltre alle innumerevoli autocitazioni di Francesca.
“Mariachidi” è il classico pezzo da live, fa ballare con le sue punchline e
funziona. “Squali” riporta il clima freddo delle sere di agosto, con una
chitarra che guida l’orecchio. Il disco viene concluso da “Intro”,
appositamente posizionata alla fine per rendere la ciclicità di tutto, o forse
perché faceva figo e basta.
Ora sedetevi, mettete un bel paio di cuffioni e godetevi
questi 29 minuti di arte musicale.
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