Correva l’anno 2008, negli Stati Uniti Barack Obama veniva eletto presidente e Kanye West pubblicava quel capolavoro che è “808s & Heartbreak”, ma cosa più importante per il panorama italiano, Marracash esordiva con il suo primo album sotto major, Marracash per l’appunto.
Già di per se l’introduzione nella scena di un rapper del calibro del king potrebbe già bastare a rendere questo evento storico per il rap nostrano, ma il disco partorito ha sicuramente fatto la storia e riscritto le regole di come si fa un album in Italia, vuoi per i pochi artisti capaci di elevare il genere a un primo concetto embrionale di mainstream, vuoi per le innegabili doti che Marra mise in mostra fin dalle sue prime tracce: una scrittura unica per la sua capacità di abbinare storytelling e tecnicismi a dei flow inusuali e, addirittura, alle volte innovativi, riuscendo nella titanica impresa di produrre contemporaneamente delle hit senza mai cadere nel banale.
Ora tralasciando le sonorità (spiegate nell’articolo precedente del link allegato) e lasciando perdere le doti di Marracash, che tutti conosciamo, soffermiamoci sul disco, non tanto sul prodotto, perché anche quello non ha bisogno di spiegazioni, ma sulle motivazioni che lo rendono un classico che chiunque ami questo genere deve ascoltare almeno una volta.
Iniziamo dicendo che è un disco completo, perché riesce ad unire canzoni personali, come “Estate in città”, nostalgiche, come “Bastavano le briciole”, a quelle dai toni più incazzati (ad esempio “Chiedi alla polvere”, “Sì Sì con la testa“) includendo hit del calibro di “Badabum Cha Cha” e “Fattore Wow” che permisero al disco di arrivare a un bacino di utenti estremamente ampio per la nomea di un esordiente in quegli anni. Rivedere la tracklist del disco nel 2020 e rendersi conto che l’autore è riuscito a comporre 18 tracce senza alcun “filler”, mantenendo una musicalità sempre variegata e mai scontata, ha dell’incredibile, soprattutto se si tiene in considerazione l’atmosfera costante creata e mantenuta per tutto lo svolgimento del prodotto musicale.
Già di per se questo basterebbe a considerarlo uno dei migliori dischi di sempre, specie se si sottolinea, ancora una volta, il numero non basso di brani, ben 18.
Le cose elencate fino ad adesso concorrono solamente a profilare i tratti di un buon disco, ma ciò che lo erge a pietra miliare del genere è ben altro.
Per tutto l’album, Marracash è capace di sradicare dal proprio mondo l’ascoltatore per farlo teletrasportare istantaneamente per i vicoli di Barona. Mettendo le cuffie alle orecchie e mettendo play a “Tutto Questo”, anche un ascoltatore “pettinato” che indossa polo Ralph Lauren e fa i risvoltini ai pantaloni, si ritrova catapultato sull’asfalto, spoglio di ogni tipo di formalità e classe sociale.
Il ritratto del quartiere periferico milanese, fatto ora di pennellate grossolane, ora di tratti delicati , è quello di un sobborgo dimenticato dalle istituzioni statali, di case di ringhiera sverniciate con i cessi dislocati, screpolate, cadenti, contornate e definite da tombini fumanti, strade dissestate e un cielo tipicamente grigio. Questo è lo scenario in cui “Marracash”, l’album e l’autore, si alzano dal suolo e prendono vita.
Quando lo stato dimentica una parte della popolazione, è lì che prende vita uno “stato segreto”. Nel quartiere milanese le leggi sono dettate dalla strada stessa e dai suoi gruppi, non c’è sindaco o assessore comunale, sono solamente i più scaltri a decidere loscamente l’iter.
Tra un racconto trasposto nella filmografia gangstar (“La Via di Carlito“, omaggio al grande film) e le descrizioni del rione (“Fatti un giro nel quartiere“, “Triste ma vero” con i Co’Sang, composti all’epoca da ‘Ntò e Luchè), Marracash prende coscienza della sua condizione esistenziale (“Trappole“) e decide di evadere dalla “sua prigione” (“La mia prigione“, questi ultimi due elencati sono stati aggiunti in una seconda riedizione, inclusa “Non confondermi“), ma questa volta non come un derelitto, ma come il rappresentante di Barona che giunge al centro di Milano, portando sul tavolo di quelli che contano (alle major,in particolar modo Universal) un’esperienza di vita che trascende qualsiasi condizione sociale.
“Marracash” già all’epoca, nel 2008, raggiunse il nono posto nella classifica FIMI, risultato impensabile per quel tempo, di conseguenza sia il disco che il rapper acquisirono un successo pressoché immediato. I ragazzini per le strade, negli stereo e alle serate pompavano “Badabum Cha Cha” e i balordi delle periferie avevano finalmente un nuovo esponente che potesse raccontare le loro esperienze.
Il mito di Marracash nasce proprio da questo disco, un album sì commerciale, ma che ha permesso al genere di incrementare la cultura hip hop, ancora acerba per i primi anni duemila, dando così l’ispirazione e vita artistica agli artisti successivi dei primi anni ’10, molti dei quali hanno ammesso di aver iniziato a rappare proprio grazie a Marracash.
Queste sono solo alcune delle tante sfaccettature di un disco divenuto culto, ora tu, lettore, se lo hai già ascoltato, i nostri complimenti, rispolveralo, ma se non lo conosci non te ne vergognare, non lo diremo a nessuno, ti lasceremo i link di seguito. Prenditi un’ora della tua giornata per ascoltare uno di quei dischi che ti faranno esclamare “è davvero invecchiato come Jennifer Aniston“.
Di Simone Molina e Riccardo Bellabarba
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