Recensione di Plaza
Diciamocela con tutta schiettezza, per toglierci un peso già in partenza e proseguire in completa scioltezza: se vi siete avventurati nell’ascolto di Plaza pensando di trovare l’ennesimo album internazionale italiano pronto ad esportare e a cambiare il volto del rap game italiano, vi fermiamo subito. Gli strenui difensori dell’enfante prodige, dopo aver letto le prime righe, avranno subito scaldato le dita per sferrare i loro insulti carichi di disprezzo verso i detrattore del loro beniamino, ma prima di dare loro il tempo di premere “invio”, vorremo spostare il cadavere dell’hype per il progetto e vivisezionare il disco, ora che è ancora fresco e in pieno ciclo di riproduzione musicale.
È il 2 Dicembre 2020 quando Capo Plaza, sul suo canale Instagram, annuncia il lancio del suo nuovo disco servendosi di un breve monologo di Fortunato Cerlino, attore presente nella serie italiana Gomorra. Qui l’embrione delle aspettative, nascosto nei rovelli celebrali degli ascoltatori inizia la sua fecondazione. I soliti post di rito, le solite copertine di riviste importanti: per gli ascoltatori accaniti, l’embrione delle aspettative diventa un piccolo feto di hype. La pubblicazione della tracklist: anche i più distaccati, alla lettura di nomi del calibro di Gunna, di Lil Tjay, di A Boogie Wit da Hoodie hanno iniziato a drizzare le antenne convogliando anche un minimo d’attenzione verso il progetto del rapper classe ’98. La pubblicazione di “Allenamento 4”: la maturazione del feto dell’hype e la stenuante attesa verso quello che poteva essere il disco che avrebbe fatto fare un piccolo passo in più all’Italia nello scenario europeo.
22 Gennaio 2021, “Plaza” viene alla luce, il gigante mostro deforme dell’hype è finalmente fuori dalle teste di ognuno, pronto a convogliare le attenzioni di ogni ascoltatore verso il disco, con il pedante avviso predisposto a richiamate l’utente non appena apre l’applicazione di Spotify. Il gigante appena nominato, diventato un tutt’uno con il progetto, ha però vita corta: come Golia con Davide crollò dopo solo un colpo ben scagliato con una rudimentale fionda, nonostante i buoni numeri d’esordio (settecento mila sono gli ascolti medi per ogni pezzo debuttato in classifica contro i milioni abbondanti di Sfera Ebbasta dopo le prime 24h), “Plaza” è destinato a perire per le sassate lanciate dal pubblico.
Se è vero che le categorie del giudizio estetico, anch’esse in preda alla mutevolezza del presente, sono relative al singolo e contingenti ai contesti in cui esse si irrobustiscono, il metro di giudizio che in questo caso verrà adottato sarà quello della coerenza tra quanto detto dall’artista in merito al disco e quanto si può riscontrare di questo nel progetto stesso.
Iniziamo subito con il dire cosa non è: un disco evoluto, maturo, vario, divertente, di drill all’italiana.
Diciamo, più semplicemente cos’è: un disco ponte pubblicato per superare il blocco dello scrittore, massiccio in quanto durata, snello in contenuti, pretenzioso, ripetitivo, una playlist di brani mascherata da disco di presentazione definito “a tratti conscious” dall’artista stesso. No, da Capo Plaza nessuno si aspettava, né tantomeno voleva, un disco capace di disvelare l’arcano della vita ma quanto meno ci si aspettava un disco che fosse diverso da quanto ci era stato proferito in “20”. Possiamo chiudere un occhio sul fatto che Capo Plaza ci aveva già raccontato di quanto avesse fame, di quanto ha dovuto faticare per avere quel che ha, degli infami che gli strisciano intorno, della roba buona che ha il privilegio di fumare, ma quello che invece non può proprio passare e che il pubblico, quasi unanimemente, non può accettare è un progetto identico a quello precedente spacciato come il disco della maturità capace di cambiare le regole e mappare l’Italia all’estero. Per l’ennesima volta ci è stata riproposta la stessa attitudine di approccio al beat, gli stessi tipi di flow, le stesse linee vocali, lo stesso autotune, nuovi sono i featuring internazionali, le sonorità sono pressoché identiche, riproposte per ben 16 volte e spacciate come “drill” soltanto per le atmosfere cupe, per i bassi gravi e per i 140/150 BPM.
Sorvolando la questione socio-culturale e il motivo di origine della cosiddetta “drill”, Capo Plaza e l’annesso disco “Plaza” possono sentirsi al massimo degli interpreti, in Italia, di tale sottogenere, intendendo per interprete colui che propone un compromesso, una mediazione, fra l’enunciato e il suo fruitore. Ciò che al massimo Plaza fa è l’operazione di com-prendere e prendere un genere musicale originariamente inglese, ostico, di difficile fruizione per l’Italia, e portarlo semplificato al pubblico dello Stivale al fine di far assorbire più chiaramente il senso di questo. Il prodotto musicale uscente Plaza è un chiaro compromesso tra le due parti, quella americana ispiratagli da Pop Smoke, e quella italiana, ancora priva di esponenti di spicco (per questo “interprete”, dal suo significato primario, ossia prendere una posizione mediatrice – inter, in latino – fra due parti per poter stabilire un valore – pretium, in latino -). Il genere che viene esportato, nella sua emulazione, perde i tratti tipici che lo rendono tale e venendo trapiantato in un territorio che non è ancora suo, come può essere quello del mainstream, il primo ad arrogarsene e a riconoscersene il diritto è proprio colui che lo rivendica per primo nel suo prodotto di punta, anche se ad interpretarlo ci sono altri artisti minori.
Nonostante la monotonia delle basi, non si può dire che AVA non abbia fatto un buon lavoro, altrettanto lo si può dire riguardo all’aspetto di mix e mastering veramente ben fatto, così come non si può non riconoscere che i featuring internazionali (Gunna, Lil Tijay, A Boogie With Da Hoodie e Luciano), per quanto distaccati e privi di affetti verso l’ospitante, non abbiano fatto la loro figura: additabile è forse la strofa di Gunna che, a chi è dotato di un buon paio di cuffie, non sarà sfuggito il set sonoro di registrazione differente della collaborazione rispetto a tutto il restante brano. Merita menzione anche il featuring, l’unico nazionale, di Sfera Ebbasta, che per quanto non eccelso, ha almeno il merito di far cambiare melodia, per qualche minuto, all’intero album.
Fatte le dovute considerazioni relative al motivo principale per cui il giudizio non può essere scevro da quanto rilasciato da Capo Plaza su Rolling Stones e nell’intervista con il suo collaboratore Antonio Dikele Di Stefano, arriviamo dunque ai punti veramente deboli dell’intero progetto.
Il noto scrittore e direttore della rivista online “Esse Magazine”, Antonio Dikele Di Stefano, anche direttore creativo del disco del giovane salernitano, in un’intervista ha fatto presente che il suo obiettivo è quello di far raccontare il disco e non quello di venderlo ma quello che arriva all’ascoltatore è tutt’altro. L’immaginario di “Plaza” è del suo autore è stantio da anni, non stimola l’immaginazione, nemmeno con riferimenti concreti di strada, la mente dell’ascoltatore, la retorica utilizzata è la stessa, il lessico, seppur con qualche lieve differenza, non sembra aver avuto un così grande incremento, idem le costruzioni sintattiche delle frasi e l’articolazione di pensiero dell’artista. Ciò che tanto Dikele quanto Plaza, nell’intervista su YouTube, sostengono e vogliono far capire è che nel disco si parla di una lotta interiore dell’artista ma il ritratto finale che ne esce fuori in realtà è quello del malandrino non ancora cresciuto che da qualche anno a questa parte rende stereotipo la cultura di strada, la rende fashion ma non la racconta. Quanto è stata influente la mano del direttore creativo? Quanto questo disco vuole raccontare e quanto vuole vendere?
Nella medesima intervista appena nominata, Antonio, visibilmente più entusiasta di Capo Plaza, parla del vissuto intrinseco nelle barre del disco, ma questo tipo di vitalità, a quanto pare, è capace di rinvenirla solo lui che ha partecipato alla stesura. Quanto vissuto e sofferenza possono percepire invece gli ascoltatori che si stanno lamentando dell’ennesimo prodotto monotono e monotematico?
Che Capo Plaza abbia del talento e una grande attitudine è innegabile, ma quanto può far guadagnare avamposti all’estero un disco che reinterpreta una corrente musicale tipica di un altro contesto?
Vero è che oramai tutti possono dire la propria e di questo l’artista oggi ne soffre più che mai, ma il pubblico, ora più di sempre, è legittimato a brontolare davanti ad un album così spocchioso, presentato in maniera tanto presuntuosa, e così infedele alle parole del suo stesso creatore.
“Plaza” rimarrà in classifica per un altro bel po’, il genere di moda oramai è questo, ma sarà davvero capace di trasformare gli scettici in curiosi e i curiosi in affezionati come dice Antonio Dikele?
Rispondiamo, azzardando, e dicendo un sonoro no, ma saremo pronti a ricrederci con il tempo e a rivedere le nostre posizioni se saranno duramente contrastate.
Di Riccardo Bellabarba
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