Se c’è una cosa che ha rotto pesantemente i co***oni è l’idea che la musica rap venga utilizzata per pubblicizzare uno stile di vita criminale, incoraggiando l’illegalità e l’imitazione di atteggiamenti e modi di fare del mondo mafioso. È un po’ come dire che De Palma con il film di “Scarface” ha creato un incremento della vita criminale nel mondo, oppure che le serie tv sul narcotraffico forniscano modelli di vita criminale da imitare a portata di mano.
Certo, si può sempre rispondere che De Palma è un artista a 360 gradi, un regista senza pari che costruisce l’immaginario globale ormai da decadi, il ché disinnesca qualsiasi tipo di critica. E nonostante il rap giochi spesso con lo stesso immaginario, come testimoniano le onnipresenti citazioni ai film di gangster e di mafia, quando se ne parla, non abbiamo la stessa possibilità di replica. Ne è un esempio palese il programma televisivo condotto da Mario Giordano sulla Mediaset, in cui viene ribadito costantemente che i rapper (specie di origine straniera), utilizzano la loro vita criminale per fare canzoni.
Le conclusioni del programma di Giordano, solitamente sono che le canzoni rap, trap, drill nascono e si diffondono col solo fine di celebrare la microcriminalità, in definitiva giudicate colpevoli di produrre esempi nocivi per i giovani ascoltatori. Ma è evidente quanto questa logica sia riduttiva per un fenomeno complesso come l’Hip Hop. Un fenomeno che riguarda la costruzione immaginaria del sé come progetto quotidiano. In altre parole l’Hip Hop ha più a che fare con il cinema, e la possibilità di costruire una canzone come se fosse il montaggio di un immaginario cinematografico, che come l’esempio di modelli di vita criminale. Ci sono rapper per cui questa cosa è più evidente, direi che l’esempio perfetto è Guè: “La mia musica è unica: un film MGM, un leone che ruggisce in tuta MCM” (FastLife mixtape vol.4, Me & my B); dalle liriche del Guercio si capisce, come le sue canzoni utilizzino immagini e rime come strumenti di un montaggio cinematografico.
E poi ci sono artisti per cui è assai più difficile comprendere dove stia la finzione e dove il reale, dove finisce la narrazione e inizia la realtà? Come cantava prima di lasciarci Primo Brown: “Le rime uscite a raffica alla Smith&Wesson, se fossimo in America sarebbe vero e invece è una metafora del mio pensiero” (Rap nelle mani vol.III, Misery non deve morire). Le rime del Primero ci suggeriscono la finezza con cui bisogna trattare l’argomento, al contrario della trasmissione di Mario Giordano, che liquida ogni ambiguità del rap definendolo come pubblicità della microcriminalità, sfanculando ogni denuncia e riscatto sociale, che possono starci dietro. E se fossimo a Catania sarebbe vero?
Nel caso in questione, Niko Pandetta è il nipote di Turi Cappello, boss della Mafia catanese, incarcerato per la 41 bis. Ecco, il punto qual è? Perché trovarsi a parlare di un personaggio che fa discutere più per la propria famiglia di provenienza, che per il proprio prodotto musicale? Anzi, Niko ha spinto fin dall’inizio, la propria carriera musicale presentandola come un cambio di rotta rispetto alla vita criminale (come quasi la totalità di ogni rapper partito dal ghetto). Seppur quella stessa vita non è rinnegata dall’artista, e fa parte dell’immaginario di ogni suo album. La retorica utilizzata dallo stesso artista (che può anche essere veritiera, ma non ne ho idea) è che nonostante la buona volontà di procurarsi da vivere come artista, invece che come criminale, è continuamente ostacolato dalle forze dell’ordine, che gli impediscono di suonare in determinate serate, e dunque di esprimere la propria arte.
Non so voi, ma mi sembra che questo discorso si sia fatto sempre più frequente nella scena italiana. Mi vengono subito alla mente RondodaSosa e Baby Gang, che certo non hanno un background familiare come quello di Pandetta, anzi si può dire che la new school Lecco-San Siro, sia esattamente agli antipodi di un personaggio come Niko. Perché? Perché nonostante anche questi artisti vengano ostacolati nell’espressione della loro arte, nella possibilità di fare serate, da parte dello Stato e delle forze dell’ordine (si veda il Daspo dato ai due mc), in quanto ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico.
Al punto tale che RondodaSosa ha preferito emigrare in Inghilterra, dove ha raggiunto una visibilità mediatica, che in Italia non avrebbe probabilmente mai ottenuto. Beh, stavo dicendo, Baby e Rondo sono agli antipodi di Pandetta perché loro emergono davvero dal niente, oltre ad essere rappresentanti delle seconde generazioni in Italia. Il portato sociale della loro musica è di tutt’altro segno, rispetto a quello che attira il nome del trapper neomelodico, nonostante l’immaginario della criminalità sia presente anche nelle loro rime.
Ma siamo qua per parlare di artisti e di musica, e non a parlare di artisti perché interessati all’atmosfera mediatica che questi attirano su di sé.
L’HipHop e il rap hanno un rapporto con la vita criminale, che fa praticamente parte del Dna del genere, ma ancora una volta domandiamoci perché. La domanda ci porta a considerare la storia di questa sottocultura, diventata cultura globale mantenendo però intatti i propri meccanismi originari. Quindi per farla breve, qual è uno dei meccanismi originari dell’Hip Hop? Il party o la festa chiamatela come vi pare, ma si trattava sempre in primis della possibilità di creare uno spazio autonomo di musica e ballo, dove si poteva anche tirare su qualche soldo dalla vendita di bibite, alcolici, erba, sigarette, o qualsiasi cosa l’ingegno potesse inventarsi. Non solo veniva fatto qualche soldo a nero e con prodotti illegali, ma le feste o Block Party nascevano (a volte) grazie ad un allaccio abusivo alla rete elettrica. Questo per dire che l’Hip Hop riguarda spesso situazioni che stanno tra la piena legalità ed una micro-economia pirata, ma non significa che la cultura hip hop porti con sé la criminalità come un virus. (Quindi ricordatevi questa cosa della festa, perché dopo sarà importante).
Niko sicuramente non viene dai Block party del Bronx, ma la sua musica è musica da festa, musica per ballare. I suoi due ultimi album, sono due album dove la cassa dritta domina la tracklist. In Ricorso Inammissibile sembra che Scarface sia andato sul tagadà, come se la gang e il boss della mafia siano andati al Luna Park, svomitazzando roba neomelodica in rima con l’autotune, dopo aver fatto una dozzina di montagne russe. Romanzo Criminale che diventa un cazzo di festa in discoteca. Le sonorità ricordano un po’ la scena hip hop marocchina, per via della prevalenza della cassa dritta, che assomiglia molto alla prevalenza della parte ritmica dei pezzi arabi. Il trapper neomelodico crea un’astronave del suono dove ciò che domina sono le produzioni, la sperimentazione sul lato musicale che s’inscrive nella storia degli incontri tra cassa dritta e rap, quella di Crookers, Dargen D’Amico, Two Fingerz. In tempi più recenti il pezzo di Salmo e Ghali “Boogieman” e il concept-dance-album 1990 di Achille Lauro. Mentre per le nuove generazioni, credo che uno dei più forti nel campo sia Pensie Dalle Popo.
Niko Pandetta non è un trapper, le canzoni spaziano su vari sound, e il suo flow neomelodico è proprio fico. Pandetta, Tempoxso e Janax creano un universo sonoro fottutamente consistente. Per quanto si possa poi andare a cercare nei testi, la risposta sta nei titoli preferiti di Niko come “Pistole nella Fendi”, “Pistole nella Gucci”, “Pistole nella Lv” che sono effettivamente tre canzoni della sua carriera, e che non sono sicuramente una ricerca culturale di profondità. Le liriche del Pandetta in Ricorso Inammissibile spaziano dal gangstalove, riprendendo il filo rosso di un amore criminale in ogni lady song, mentre le altre sono una specie d’autocelebrazione iperbolica di sé, che diventa una caricatura della vita criminale. L’impressione durante l’ascolto è inevitabilmente una, non siamo di fronte all’esaltazione della vita criminale, ma alla sua derealizzazione caricaturale. Pandetta non rinnega la vita criminale, ma nemmeno la celebra con solennità, reverenza e serietà. Credo che l’esempio perfetto sia “Non mi prenderete mai” dove Pandetta canta, come gli capita spesso, contro gli sbirri, dicendo che non lo prenderanno mai, ma il pezzo stesso c’informa che l’hanno preso. Il che mi fa sorridere, cioè mi fa un effetto di divertimento, di festa, e credo che il filtro della festa sia l’angolo da cui leggere la carriera di Pandetta, soprattutto per quanto riguarda “Bella vita” e il nuovo album, che però cala un po’ rispetto alla precedente fatica. Inoltre interessante il lancio promozionale del disco. Non so quanto sia stato premeditato dal Niko, ma “Ricorso Inammissibile” è stato fatto uscire pochi giorni dopo l’annuncio della sua incarcerazione, e la prima canzone dell’album è proprio “Non mi prenderete mai”, c’è una bella dose d’ironia. Il rapper di Catana è al contempo un Don, cioè un mafioso, ma anche un Pokémon: “Maresciallo non ci prendi Pandetta è un don, non mi catturi nemmeno con la masterball”. Pandetta non interpreta un personaggio, è semplicemente la trasformazione di un immaginario criminale nella colonna sonora di un Luna Park malavitoso, che in “Ricorso inammissibile” diventa una serie tv incentrata sulle love story di un gangsta perennemente innamorato. Direi che chi cerca la riflessione e il flusso di coscienza sbaglia musica se ascolta Niko Pandetta, per chi si vuole fare due risate e ballare con gli amici, invece consiglio un ascolto spassionato.
Di Simone Scoscini
Nessun commento!