Era già scritto e non poteva andare diversamente. Era nel dialetto della gente, nelle strade dei rioni, sui muri delle case popolari: come se tutti lo avessero tacitamento già saputo, era solo questione di tempo. Ci sono certi amori che finiscono e, quando il 14 febbraio del 2012 Luca e Antonio hanno annunciato la fine dei Co’Sang e l’inizio delle loro carriere da solista, il tempo è indietreggiato per lasciare spazio alla consapevolezza che quella passione avrebbe fatto un giro immenso per poi tornare.
Dopo 12 anni, i Co’Sang è come se non se ne fossero mai andati. Tra i blocchi di cemento, nel buio delle periferie, tra le vertiginose altezze dei casermoni i loro versi sono rimbombati come un eco immortale, che per un intero decennio ha alimentato l’immaginario di chiunque abbia immaginato la poesia cruda, di chiunque abbia rincorso il sogno del rap in tutti ghetti del mondo. Loro, progenitori ancestrali di una dinastia di cani di strada cresciuta tra poesia e asfalto.
Non ci ho creduto finché non li ho riascolti insieme: quell’amore ha fatto un giro lungo un decennio, lungo due carriere soliste, lungo dischi di platino, fallimenti e capolavori; quell’amore ha fatto un giro immenso, ma poi è tornato. “Dinastia” è il nuovo disco dei Co’Sang, disponibile ovunque, a partire dal 30 agosto 2024.
Questa storia non parla solo di musica, ma parla di due uomini: due ragazzi prima, cresciuti nella stessa fame, nella stessa periferia Nord di Napoli; due uomini poi, pasciuti dalla stessa cultura HipHop, dallo stesso successo, accomunati dalla stessa idea di arte e da una voglia a forma di fragola dietro al collo. Luca e Antonio.
Forse dobbiamo partire da loro. Qualche minuto dopo l’uscita del disco, Luché pubblica un post con una lunga descrizione, una lettera: parla ai fan, parla alla musica, ma su tutti parla a Ntò, a Antonio, dedicandogli parole delicate che ripercorrono il loro rapporto tanto burrascoso quanto intenso.
Luché sottolinea il legame del duo, il sangue comune, un amore che si è assopito ma che non è mai realmente morto. Co’Sang è appartenersi, l’uno nell’altro. Il messaggio richiamo a pieno quanto i due artisti si dicono in rime nel singolo che ha aperto il loro ritorno, “O primm post”:
T’aggio dato tutto chello che tenevo
Co’Sang – O Primm post (Dinastia, 2024)
T’aggio ditto tutto chello che sentevo, po
M’aggio miso ô primmo posto
Nun simmo maje state ô primmo posto
Ma simmo sempe state ‘o primmo posto
Luché e Ntò si dedicano le strofe, si cantano il ritornello. Chiariscono e si confessano, lo fanno per loro stessi e per chi li ha aspettati. Si giurano fedeltà e trasparenza: se c’è stato qualche errore è stato fatto a fin di bene, per tutelare sé stesso e l’altro. I rapporti sono chiariti, passiamo alla musica.
Ho sentito tanto parlare del ritorno dei Co’Sang come di una mossa di marketing, il surf perfetto per cavalcare l’onda della nostalgia. Inevitabilmente “Dinastia” è stato accomunato a “CLUB DOGO”, il progetto che ha sancito il ritorno del trio milanese: qualcuno ha fatto paragoni di qualità, qualcuno ha sottolineato la comune strategia economica dietro i progetti. Ma c’è qualcosa di diverso tra i due dischi, qualcosa che ha a che fare con la narrazione dietro di essi.
Nella mia recensione del progetto dei Dogo, tempo fa, sottolineai come il ritorno di Guè, Jake e Joe sembrasse acclamato dalla gente: un richiamo dal basso, un’esigenza delle persone. Tutti ricorderete gli scooter per Milano che sventolavano le bandiere con il Dogo Argentino nei video promozionali, i tattoo sulle braccia, le locandine nelle metro. Dalla gente, per la gente insomma.
Nei Co’Sang invece tutto ciò sembra venir meno, quasi come se il “farlo per la gente” perdesse di importanza di fronte ad un’altra priorità. Ce lo ricorda Ntò in “Nun è mai fernut”:
‘St’ammore nun fernesce, è n’incantesimo (Comme aggi”a fà?)
Co’Sang – Nun è mai fernut (Dinastia, 2024)
Credevano ca era nu bluff, n’operazione ‘e business (Seh)
Luchè, ‘sti scieme nn’sanno niente, ‘o facimmo pe nuje stesse (Ah-ah)
Il pezzo è bellissimo. Luché e Ntò intonano un’ode ai sentimenti veri, all’appartenenza, al fatto che i Co’Sang non sono mai realmente finiti. Prima della gente, prima dei soldi, lo fanno per loro stessi, come se insieme niente potesse fare loro del male. Costantemente nel disco i due si parlano e si dedicano un numero di barre sproporzionato: ammiccano l’uno all’altro, veterani di una complicità mai estinta. Ancora Ntò in “Nu creatur int’o munn”:
L’ho cercata ingenuamente quando ho cominciato ad ascoltare “Dinastia”. Dopo 12 anni, avevo fame di Poesia Cruda, della stessa narrazione di strada che impregna “Chi more pe’mme”, quell’occhio spregiudicato sulla cronaca di cemento che aveva reso i Co’Sang i cantori dell’Area Nord di Napoli negli anni della più grande faida di camorra che l’Italia abbia mai conosciuto. Forse come me molti spontaneamente si sono riallacciati a quei testi.
“Dinastia” non è un disco che soffre la fame, ma sguazza orgogliosamente nel lusso, com’è naturale che sia, riprendendo il discorso iniziato dodici anni fa con “Vita Bona” e portandolo coerentemente a conclusione. Il secondo disco Co’Sang si lasciava alle spalle la morte di “Chi more pe’mme” e guardava con speranza ad un futuro radioso, fatto di successo, redenzione, denaro: la vita bona è la missione, il punto di arrivo di chi, per citare Ntò in “Vincente” è cresciuto
“Dinastia” è blasonato, pieno di denaro e potere, sfoggiati come un vanto nelle rime dei due rapper. Il disco è pieno di richiami ai soldi, testimoni della vita che fu ma artefici del benessere presente. Così in “Nu creatur int’o mun” Luché incastra barre che ostentano un lifestyle diametralmente opposto all’indigenza di Marianella; ancora nel ritornello di “Nu cuofn ‘e sord” si sottolinea quanto tempo ci sia voluto per ritornare nel ghetto con un proprio potere economico; “Carnicero”, in collaborazione con un tecnicissimo Marracash, e “Vincente” sono la dimostrazione di una vita veloce che i Luché e Ntò consumano tra serate, donne e auto di lusso.
La ricchezza è uno dei temi che attraversa il disco e lo rendono tale: lo statuto dinastico dei Co’Sang passa per un egotrip prima periferico nella loro discografia, ma adesso perfettamente credibile se contestualizzato nelle carriere dei due artisti. Luca e Antonio il sogno del rap lo hanno realizzato: la “Vita Bona” è la vita vera, la loro, tornati nella loro città incensati da uno statuto quasi aristocratico.
Nel progetto non c’è solo questo: brilla ancora nitido il ricordo di una strada, madre generatrice e punitrice, una realtà spietata, in cui vincere per non morire. “Carne e Ossa” ripercorre i primi passi del sogno del rap, tratteggiando la realtà della periferia come monopolizzata dalla morte. Così Luché nella sua strofa:
‘O primmo muorto ‘nterra a nov’anne
Co’Sang – Carne e Ossa (Dinastia, 2024)
Nn’priammo né Dio manco ‘e sante (No)
Priammo sulo ‘e sconte d”e condanne (Condanne) (Ehi)
In questi versi, si intravedono di più i primi Co’Sang con il loro racconto da sciabola. “Comm a na fede”, in questo, forse, è il brano più rappresentativo: nelle immagini di un bambino seduto tra le macerie di un palazzone, infuriato, messo ai margini da una società borghese arrivista, che accarezza un cane randagio, si intravedono i volti di Luca, Antonio, di tutti i bambini di tutte le periferie del mondo. In questa furia repressa, c’è l’ardore di prendere il futuro a morsi.
T’hê maje chiesto si Gesù Cristo s’è offeso?
Co’Sang – Comm a na fede (Dinastia, 2024)
Tu ca facive gol ‘int’ô cancello ‘e na chiesa (Uh)
‘Stu cielo nun è cielo, ma è comme e nu soffitto (Ah)
Nisciuno è libbero (Ehi), ma simmo ‘e priggionierie cchiù ricche
Ammore. C’è anche l’amore in “Dinastia”, a cui vengono dedicati i due brani più discussi del disco. Sulla scelta dei featuring i due artisti hanno già rilasciato delle dichiarazioni. Sappiamo che i Co’Sang hanno organizzato gli ospiti del loro progetto dividendoli in due grandi rami: il passato, tra cui c’è Marracash, e il futuro, Liberato e Geolier. Proprio a questi ultimi due sono assegnate le due tracce romantiche dell’album.
Liberato cura intro, ritornello e special di “Sbagli e te ne vai”, l’unico brano non rappato del disco. La traccia è piuttosto divisiva: se Liberato è perfettamente a suo agio tra elettronica, mistilinguismo e melodie, se Luché aveva già sperimentato il cantato da “Potere” e “Dove Volano le Aquile”, Ntò sembra non giocare perfettamente in casa, con armonie e vocalizzi che non lo trovano sempre a suo agio.
Su Geolier, invece, bisogna fare un discorso diverso. Emanuele, fin dagli esordi, si è imposto come diretto erede dei Co’Sang, dai freestyle di ManuBeat sul beat di “Int’o Rione” a “Over” nell’ultimo disco di Luché, in cui l’enfant prodige di Secondigliano su quel beat ci torna da protagonista. Insomma, tutti si sarebbero aspettati che Geolier ricevesse il testimone dal duo di Marianella e che siglasse una traccia degna del primo erede della “Dinastia”.
“Perdere ‘a capa” si allontana nettamente dalle aspettative: il brano è una ballad che cerca la hit, in cui i tre interpreti si rivolgono a tre donne, descrivendo tre rapporti diversi, su un beat che ambisce a diventare la hit trainante del progetto. Forse tutti avremmo voluto qualcosa di diverso, di più autentico, di più personale e meno pilotato da esigenze di mercato.
Passato, presente e futuro si intrecciano come nelle barre anche nelle sonorità. Due sono gli artefici principali del suono di “Dinastia”: Geeno e Dat Boi Dee. Non si può non riconoscere ai due l’abilità di ricostruire i tappeti sonori dei Co’Sang, rinfrescando senza mai snaturare le atmosfere del duo.
Da fan storici a diretti creatori del ritorno dei propri idoli, i due hanno il merito di aver confezionato tracce fresche, più accessibili per un pubblico cresciuto sotto l’egida dei Co’Sang ma che non si era mai realmente avvicinato ai progetti passati. “Dinastia” è interamente rap, senza mai risultare stantio, profondamente tradizionale pur essendo al passo con i tempi.
A questi due nomi si affianca il cameo di Pepp o’ Red, storico produttore di “Chi more pe’ mme”, in “Carne e Ossa” e di Luché stesso che cura la produzione, magistrale, di “Comm e na fede”.
Avviamoci alla conclusione e facciamo due menzioni di onore. La prima è “Cchiù tiempo”, in collaborazione con i Club Dogo. Il brano, che campiona “Hate It Or Love It” di The Game e 50 Cent, è tra le tracce migliori del disco: Ntò, Jake, Luché e Guè si alternano sul beat, raccontano la loro storia artistica, si benedicono per essere tornati a rappare insieme, si citano su un boom bap che non lascia spazio a incertezze.
Il ritmo di questa vita, lo slang delle case pop, al non fidarmi dei cops
Co’Sang – Cchiù tiempo feat. Club Dogo (Dinastia, 2024)
Il mio frate’ conta il tempo diversamente in uno speciale (Seh)
La sua famiglia sta bene solo se fa del male
Grazie, mio signore, per questo regalo ai fan
Per avermi messo ancora sul beat insieme ai Co’Sang
Chiudiamo. “Dinastia” si chiude con la sua title track, la seconda e ultima menzione d’onore. Non mi dilungherò, vi invito semplicemente all’ascolto. La traccia si chiude con il ritornello di “Povere mmano”, una delle canzoni più note di “Chi more pe’mme”, ma c’è qualcosa di diverso. Se nel brano originale Luché e Ntò celebravano la memoria delle vittime innocenti di camorra, in “Dinastia” Luca e Antonio fanno un omaggio alla musica, colei che aiuta per la vittoria, che scorre, come sangue nelle vene, in ogni gesto.
Ho aspettato 12 anni per scrivere questo articolo. 12 anni nella speranza di poter finalmente scrivere questa recensione, per poter dire di aver visto di nuovo Luca e Antonio sullo stesso beat. Li ho risentiti raccontare la mia periferia, le mie strade. “Dinastia” chiude un sogno, un cerchio che si era aperto nel 2005 e che aspettava di essere completato. Non ti commuovere, non è un pezzo triste: è il ritorno dei Co’Sang. Dio Benedica il rap.
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