Sanremo 2023. Rap e pop stanno davvero così agli antipodi? Il festival ci suggerisce di no, e scatta un’istantanea alla fluidità odierna della musica.
Che l’essere umano abbia, sin dai tempi più antichi, la spontanea tendenza e necessità a racchiudere il mondo, sia concreto che astratto, in categorie, è stato confermato da svariati studi scientifici e sociologici. Lo si può facilmente notare con i prodotti dell’arte, raggruppati e riposti man mano come in una grande cassettiera a seconda per esempio della trama, se si parla di cinema, letteratura e teatro, o della corrente artistica d’influenza, per le arti figurative.
Per quanto riguarda la musica, tradizione vuole che sia sempre stata suddivisa in generi in base a categorizzazioni basate su caratteristiche antropologiche e sociali. Abbiamo quindi il blues e il jazz degli schiavi neri, il reggae giamaicano, il neomelodico, la musica classica e tanti altri, tra cui naturalmente il rap. Tutti questi generi, nati come esigenza sociale e poi convertiti a barattoli dove riporre tutte le nuove sonorità riscontranti caratteristiche comuni, di fatto, sono fra loro collegati da una categoria che non ha affatto confini nitidi, che si potrebbe definire “fluida“; termine azzeccatissimo nel vocabolario musicale.
Stiamo parlando del pop, genere che può tranquillamente vivere in autonomia, ma che è altrettanto in grado (e ce lo sta dimostrando proprio negli ultimi anni) di andare a nutrirsi dal rap, come dal neomelodico o addirittura dal punk. Il punto è che questa contaminazione, nel panorama musicale contemporaneo in cui l’aspetto etnico si è decisamente attenuato, avviene costantemente. Un brano può appartenere, nell’ordinato schema della nostra mente, ad un genere determinato, eppure, ricadere parallelamente nel calderone del “pop”. Questa dualità nella musica arriva a diventare peculiare nel caso di personalità borderline, a cavallo tra i generi, la cui figura, affiancata da alcune componenti del loro stile artistico, ci suggerirebbe essere etichettabili come “rapper”, o quantomeno appartenenti a questo mondo, ma le cui produzioni vengono considerate come “pop”. Ne sono un’ emblema Post Malone e The Weekend: perennemente a contatto con il rap ma, di fatto, artisti pop.
Ma diamo una definizione, al semplice scopo di fare chiarezza: come possiamo descrivere questo genere così volubile?
Prendiamo quanto viene riportato da Treccani:
“ Originariamente in uso solo nei paesi anglofoni, la locuzione “pop music” è stata usata per designare la musica concepita e prodotta per il consumo popolare, urbano e di massa, nell’era della civiltà industriale.”
In altre parole, tutta quella musica che, in quanto di facile comprensione e reperibilità, è pensata per l’intera popolazione. Ma cosa succede se proviamo ad applicare questa definizione al mercato musicale degli ultimi anni? Succede che ci ritroviamo di fronte alla fotografia dello scenario rap (inclusivo di ogni sua declinazione, dalla trap al latin rap e relativo reggaeton) in quanto primo genere per fruizione al mondo, in vetta alle classifiche più influenti.
Restringendo la nostra attenzione sul nostro paese appare chiaro come il genere pop fosse rappresentato fino a pochi anni fa da quella che è sempre stata definita come “musica leggera”: da Claudio Villa ai Pinguini Tattici Nucleari, passando per Eros Ramazzotti, Massimo Ranieri e tanti altri. Nomi che sono stati man mano sostituiti da Guè, Marra, Sfera ecc, in una sorta di cambio generazionale del mercato che parte dal pubblico ma anche dalla globalizzazione, che ci permette ad oggi di essere sempre al passo con i panorami esteri e di fruire senza limiti a qualsiasi tipo di produzione musicale.
Un riflesso di questa trasformazione si palesa in quello che è il palco per eccellenza della musica italiana, e che proprio in questo periodo è imminente e sulla bocca di tutti: il Festival di Sanremo. È proprio la kermesse ligure a fare da cartina tornasole di un forte cambiamento: ci accorgiamo, infatti, di come i big storici stiano progressivamente scomparendo dalle annuali liste dei partecipanti, lasciando spazio a sempre più artisti della scena rap, basti pensare alla massiccia presenza di figure collegate, strettamente o meno, a quel contesto, come Lazza e gli Articolo 31, ma anche figure borderline come Madame, Rosa Chemical, Tananai e Mr Rain, definibili “pop” ma riconducibili, per collaborazioni e stilemi.
L’altra istantanea che questa edizione sanremese (ma anche quelle più recenti) ci fornisce è quella scattata sulla serata cover, che vedrà i 28 partecipanti esibirsi con uno/a o più ospiti: se un tempo erano i rapper ad avere necessità di cantare al fianco di artisti già affermati per l’espansione del proprio bacino di utenza e la considerazione dal grande pubblico, oltre che dai maggiori canali di comunicazione, ora sono i grandi nomi italiani a ricercare e chiedere di poter entrare in contatto con gli artisti rap. Ne sono esempi Elisa, ormai presenza ricorrente negli album più importanti, ma anche Noemi e Giorgia insieme a Gemitaiz, Marco Mengoni con Ernia, e tanti altri. La serata delle cover rispecchia questa tendenza con la presenza di Izi, Bnkr44, Salmo, Rose Villain, Fedez, Big Mama e Don Joe.
Le domande che, alla luce di queste riflessioni, si presentano, sono due: gli artisti della scena rap hanno bisogno di Sanremo? E perché alcune figure come Marracash, Fibra, Guè o Gemitaiz (considerabili come gli esponenti più importanti del genere) se ne privano volutamente?
Innanzitutto, per provare a rispondere a tali interrogativi, è necessario considerare un fattore, ovvero che, ad oggi, il Festival di Sanremo è ancora, a distanza di 73 anni, l’unica occasione in grado di richiamare gli italiani e le italiane davanti al televisore, riscoprendo con curiosità e serietà un’arte spesso dispersa e ignorata fra gli impegni della vita quotidiana. Ciò che è sicuramente degno di nota è il fatto che, come i fruitori più giovani verranno riavvicinati alla televisione grazie a partecipanti come Lazza, Rosa Chemical e Tananai, gli stessi verranno conosciuti dal pubblico appartenente a generazioni più vecchie. In parole povere, molto prevedibilmente le nostre nonne si troveranno a tamburellare le dita a ritmo di canzoni che mai al di fuori di questi 5 giorni si sarebbero aspettate di apprezzare ( la previsione non è difficile se si pensa a ciò che successe con Achille Lauro nel 2019).
Cosa spinge, dunque, un/a qualsiasi artista a non aspirare a una partecipazione al contest?
Chiaramente le nostre potranno essere solo ipotesi, riflessioni nate in relazione proprio ai nomi di tali artisti, che di fatto possono “permettersi” di disinteressarsi poiché già in possesso di uno status tale da conferire loro un solido contatto con il pubblico popolare, senza necessità di un’ulteriore vetrina. Oppure può subentrare un’altra spiegazione, molto più lecita e comprensibile di quanto si possa immaginare: quella della possibile perdita di tale status e quindi del timore di un giudizio negativo.
In Italia, infatti, vige una fortissima rigidità per quanto riguarda i generi musicali in generale, e nello specifico rap e indie (per quanto si possa davvero parlare di indie come genere). È proprio in concomitanza con l’inizio del Festival che si sente gridare al “venduto” e al “traditore” verso artisti venuti appunto da questi due mondi e il cui pubblico critica la decisione di “abbandonarsi al pop”, come fosse una sorta di perdita di qualità o sconfitta. Gli esempi sono moltissimi, da Achille Lauro, a Rkomi, a Mahmood a Ghali. Questi nomi, sono stati spesso vittime di critiche tra le più gratuite, dall’essersi snaturati per fama o soldi, all’aver cercato successo altrove perché incapaci di raggiungerlo nel proprio. Se in Italia regna ancora questo tipo di ideale, chiuso ed estremamente anacronistico, all’estero e in USA, paese da sempre idolatrato come patria del rap più puro, nomi come Drake, Bad Bunny, Cardi B, che tutto sono fuorché etichettabili sotto un genere univoco, distruggono record e classifiche col favore di tutti.
Questo accade perché spesso ci dimentichiamo di come brani che consideriamo “puri” possano diventare automaticamente passibili della categorizzazione “pop” esclusivamente per motivazioni commerciali. Prendiamo come esempio “Cookies N’ Cream” di Guè con Anna e Sfera Ebbasta, prodotta su basi culturali estremamente Hip Hop con l’ispirazione al gangsta rap di 50 Cent, ma che ha dominato sin da subito le classifiche e viene riprodotta in loop nei bar, centri commerciali, negozi ecc. diventando accessibile anche ai non fautori, diventando appunto popolare, o pop (per certi versi).
Naturalmente, tornando alle motivazioni per le quali considerare la kermesse un’opportunità, se osserviamo la questione dal punto di vista degli addetti ai lavori (case discografiche, manager ecc, quelle persone che vedono l’aspetto economico davanti a quello artistico), è evidente come il pop sia la terra promessa e, di conseguenza, il festival di Sanremo una sorta di gallina dalle uova d’oro, da sfruttare senza troppo indugio portando i propri pupilli su questa vetrina che, però, non è per tutti (e il rischio di far crollare rovinosamente la propria carriera c’è e non è indifferente).
Tirando le somme, questa graduale “invasione” del rap a Sanremo dovrebbe restare, secondo noi, un’occasione da guardare con orgoglio per i veri amanti del nostro genere, o per lo meno con sana curiosità, in quanto segnale che, dopo tanto tempo sia “la strada” a dettare legge nell’industria musicale e non viceversa. Ciò è sintomatico di come un genere che fino a vent’anni fa era a stento considerato tale, possa diventare addirittura il faro da seguire.
E a noi questo, Festival o meno, profuma di vittoria.
Con la collaborazione di Alice Tonello.
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