E’ raro trovare un libro sul rap italiano che non dica qualcosa di già detto, tranquillamente rinvenibile su Wikipedia, ma “Mio Fratello Guè” di Matteo Fini, ci prendiamo la libertà di dirlo, riesce a fare quello che molti autori, addetti ai lavori e magazine, non fanno.
Matteo Fini è un professore (lo chiamano non a caso “prof”), dottore di ricerca in Statistica (Università degli Studi di Milano Bicocca), un giornalista musicale, autore di “Non è un Paese per bamboccioni” (CairoEditore, 2010), “Università e Puttane” (Priuli & Verlucca, 2017), Jobber (EducationFlow, 2019) e di numerosi manuali di Metodi Quantitativi per il Business, l’Economia, il Marketing e la Finanza ma prima di essere tutto questo, è un grande appassionato di Hip Hop che ha avuto il privilegio di veder nascere tutto il movimento e la scena italiana.
“Mio Fratello Guè”, pubblicato indipendentemente il 4 Ottobre 2021, è una raccolta di avventure, aneddoti e racconti filtrati da un punto di vista soggettivo ma lucido, poco fazioso e capace d’illuminare, sotto molti punti di vista, quei meccanismi impliciti e sottaciuti che gli ascoltatori curiosi, da fuori, non vedono o non percepiscono come rilevanti nell’economia di tutto il genere musicale.
Noi di Rapteratura, dopo aver letto il libro ed esserci confrontati, abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con Matteo che, gentilmente, si è messo a completa disposizione rispondendo a ogni nostra domanda.
Tra qualche battuta di circostanza capace di spazzare via ogni sorta di formalismo, una breve, ma non troppo, parentesi di discussione sul wrestling tra Matteo e Simone, qualche problema d’audio e di registrazione, inizia così l’intervista.
A Pagina 21 citi KRS-One con “Rap is somenthing you do, hip-hop is somenthing you live”. Il rap italiano oggi è molto svincolato dalla cultura hip-hop?
KRS-One diceva che il Rap è qualcosa che fai, l’Hip-Hop invece qualcosa che vivi, quindi posso essere hip-hop anche facendo altro ed è anche il messaggio della cultura in generale che ha da sempre inglobato più arti.
Pensi che sia così in Italia? Si è notato che nelle nuove generazioni questo rispetto verso la cultura sia venuto un po’ meno nella scena di oggi, è così?
Secondo me adesso non serve più identificarsi in una cultura per fare musica, ma non la trovo essenzialmente una cosa sbagliata penso, anzi, che oggi sia diventato molto forte la musica Rap e non è necessario conoscere per forza da dove viene per farla.
C’è chi ha la passione e non la manifesta perché non gli viene chiesto ma ci sono tanti giovani tra le nuove generazioni di rapper che ha una cultura Hip-Hop molto profonda, mentre altri non sanno nemmeno cosa sia, ma non fa niente.
A pagina 23,24 racconti del passaggio del testimone tra Fame e Neffa. Secondo te i nuovi rapper nascono più sotto i palchi com’è capitato con Fame e i Sangue Misto?
Nell’esempio che racconto di Fame al concerto dei Sangue Misto, all’epoca il Rap lo andavi a trovare nei live e non avevi altre possibilità, non passava in TV o in radio.
Inoltre Jake era già molto forte a rappare, cito il passaggio di testimone perché noi lo sapevamo già quello che sarebbe diventato.
Adesso il Rap lo trovi ovunque e sotto varie forme, si fa influenzare e influenza.
Quello che mi dispiace è il concerto vissuto su YouTube o comunque quando si va al live e si sta tutto il tempo davanti al cellulare a filmare (chi caz** se lo riguarda a casa poi?!), perché il concerto è l’essenza di questa musica e secondo me lo devi vivere a pieno.
All’ epoca Jake, per esempio, sotto il palco faceva due cose: freestyle e ascoltare l’artista che rappava, so che adesso si riprendono i concerti per le Instagram Stories però ti perdi tutta l’essenza di questa cultura.
Mi dispiace un po’ che questa roba si sia persa oggi anche se vedo alcuni live ragazzi nuovi tipo Rhove o Paky, dove ci rivedo questo trasporto verso il live in sé.
Il fatto che una volta i ragazzi vivevano il concerto molto più di adesso, mentre ora passa più la figura che la musica, il fatto che si miri ai social sono fattori che fanno capire che si stia iniziando a vedere il rapper più come un idolo o un brand piuttosto che come un artista.
Secondo me c’è sempre stato il concetto di idolo, mentre prima si pensava per esempio solo a toccarlo, come cito nel libro con J-Ax, adesso magari non lo si conosce nemmeno ma gli si chiede la foto perché è famoso e la metto su Instagram; la mia emozione non è personale la voglio condividere con tutti senza viverla, quindi si perde tutto il meccanismo.
E’ un cane che si morde la coda perché è ovvio che nella fiera dell’immagine anche gli artisti devono mangiarci in qualche modo e quindi devono calcare, chi più chi meno, quel lato lì plastificando il tutto inevitabilmente.
Il non sentire la cultura come una volta, può portare i rapper a vedere il rap come un genere di passaggio per svoltare verso il pop e altri generi ad un certo punto della carriera?
Molti artisti si danno al Pop, non perché secondo me amano meno la cultura ma perché ci provano andando dove possono trovare più lavoro e più attenzione. Alcuni di questi li ho conosciuti di persona e posso dirvi che sono davvero persone molto lungimiranti.
Nel libro hai parlato anche di Maruego come uno dei primi a portare la trap e di Ghali che lo ha seguito. Ora c’è la Seven 7oo sta cercando di portare il suo concetto di Drill in Italia: vedendola in una visuale più ampia, questi artisti hanno in comune le origini e l’essere immigrati di seconda generazione in Italia. Secondo te questo particolare contesto sociale e quel tipo di pressione che vivono, ha dato terreno fertile al loro bisogno di farsi sentire e alle varie influenze che riescono a recepire?
Io penso che bisogna considerare in primis la qualità e loro hanno tonnellate di talento, il fatto di essere immigrati di seconda generazione è la loro vita, che magari può averli aiutati ad avere più affinità con le influenze perché cresciuti con musica diversa che si sente molto nelle loro produzioni e nei loro rimandi, ed è questo il bello, ma non penso che abbiano avuto successo per questo motivo ma perché sono bravissimi a scrivere e in quello che fanno, anche se i ragazzi di San Siro li conosco poco.
Sicuramente l’Hip Hop e il rap essendo nati per strada hanno terreno fertile in quei contesti sociali permettendo di esprimersi più facilmente e con stile anche per chi non è acculturato, ed è anche questo il bello di questa realtà.
Sono molto incuriosito dalla realtà di San Siro, nonostante possa essere esagerata la costruzione dei loro personaggi e le immagini che evocano, non mi disturba ma anzi ne sono piacevolmente colpito.
Collegandoci all’immaginario esagerato, questa cosa di portare le bandane con le colorazioni delle gang all’interno di un pubblico che non sa la potenza di quei simboli in America, potrebbe essere un problema o potrebbe essere legittimo farlo?
Io sono dell’idea che ognuno può far quello che vuole, se al proprio pubblico piace. A me non dà fastidio l’immaginario però mi urta quando sei arrestato, daspato – e mi va bene se lo racconti come parte della tua vita- ma senza sfociare nel vittimismo se ci sono effettive conseguenze delle tue azioni. Il personaggio non deve rendere la tua vita reale e mistificarla, capisco l’esagerazione piuttosto che nascondere la realtà per quello che è realmente. E’ bello cantarlo ma non nasconderlo poi se ci sono effetti negativi per la tua persona.
A pagina 110 parli del fatto che l’invidia della scena non ha aiutato nel momento di massima espansione del genere, poco più avanti parli della mancanza di scolarizzazione del pubblico nell’accettare l’hip hop e il rap nelle sue forme concettualizzando quello di cui noi parliamo con la nostra rivista, il fatto che ci deve essere qualcuno o qualcosa che istruisca il pubblico.
Secondo te in cosa sbagliano le riviste e gli organi di settore informativi di musica rap, cosa dovrebbero fare e come dovrebbero migliorare? Si tende a riportare solo la notizia piuttosto che spiegare il fenomeno e far nascere dei quesiti costruttivi nei lettori.
Tanto per cominciare non ci sono giornalisti nel mondo del rap e dell’hip hop, ma non voglio dire che non si debba parlarne, può farlo chiunque però non mi aspetto che chi scrive di rap sappia cosa significa fare giornalismo. Il problema del Rap è che è un fenomeno relativamente giovane che ha avuto un boom pazzesco negli ultimi 5-6 anni e non era pronto nessuno e quindi non c’erano mezzi adeguati per raccontarlo.
Il magazine di riferimento del Rap italiano è nato come progetto e con i soldi di Ghali, ma non può un organo d’informazione essere pagato dall’artista di cui parlano, nonostante l’idea alla base di Ghali sia stata fatta con i migliori propositi.
Non c’era informazione di settore e i rapper fino a qualche tempo prima non avevano tutta questa visibilità che hanno adesso e quindi nessuno era abituato a fare interviste e a essere interfacciati ad un critico musicale.
Quindi avendo avuto un boom relativamente veloce e talmente grande che si è finiti che a parlare di rap fossero gli stessi amici dei rapper abituando quindi gli artisti nell’essere sempre valutati positivamente e nel veicolare le interviste e gli articoli a proprio piacimento dando potere all’artista.
La cosa grave è che le case discografiche hanno capito questo fenomeno facendolo proprio e adesso non sono più gli artisti a pagare il magazine ma è la stessa major a pagarli e fa uscire le notizie che vogliono sui propri artisti come fosse pubblicità nonostante sembri un’intervista o un documentario ma si rivela essere tutta pubblicità.
I rapper non sono abituati a sentirsi fare delle domande o delle critiche e ogni volta che si scrive in maniera più critica su un artista, si viene contattati dall’artista, dall’ufficio stampa e dalla casa discografica. E’ una cosa che non dovrebbe esistere perché c’è la libertà di espressione e di opinione e si può dire ciò che si vuole.
Nel Rap non c’è questa cultura che nelle altre realtà è normale amministrazione e non c’è rispetto per il lavoro altrui, ognuno deve fare il proprio come è giusto che sia.
Nell’ultimo capitolo poni l’accento su una questione molto importante: la grossa mole di musica che c’è oggi, i rapper e le case discografica che stanno spremendo tantissimo il mercato musicale e gli ascoltatori. A fine anno ci chiediamo sempre quali dischi e progetti che hanno segnato davvero l’anno e che rimarranno nel futuro, quindi la domanda che di rimbalzo ti lasciamo è: quando è che la musica non scade e segna un periodo? Perché sì, la musica scade e lo stiamo vedendo continuamente, i dischi a volte non durano nemmeno una settimana nell’immaginario collettivo.
Cosa bisogna fare per tenere in vita la musica?
E’ difficile rispondere, ma dal mio punto di vista è evidente che c’è troppa roba come se fossimo davanti ad un buffet immenso di buon cibo ma tu puoi mangiarne solo qualcosa e magari ti perdi qualcosa di davvero buono che nemmeno riesci a vedere.
Temo che non ci sia una soluzione e la realtà è che probabilmente non avremo più dischi iconici, è la musica che si mangia da sola: da una parte arricchisce l’artista ma dall’altra li depotenzia dequalificando la loro musica.
Non si può tornare indietro per cui è inevitabile che ogni venerdì esce un disco che lunedì è primo in classifica e poi la settimana dopo è scomparso completamente e ne sono vittima anche artisti consolidati.
*Parliamo della sedimentazione della musica*
Nel libro parli del “processo” vero di Ortopedic che si è svolse sul forum, se invece ci spostiamo alla più recente diatriba di “Due Tiri” di Lazza e Pi’erre Bourne, questa si risolse con due barre e il totale disinteresse del pubblico nel lungo periodo. Ci chiediamo quindi quali sono diventate secondo te le zone di discussione che il rap ha oggi, dato che adesso esce un disco e piuttosto che discuterne si pensa al commentino goliardico per qualche like?
Devo dire che sul Nill Forum ci trovo parecchi spunti interessanti e si discutono ancora i dischi e le uscite, nonostante sia assurdo pensare che un luogo di discussione obsoleto come un forum abbia ancora parecchio seguito.
I migliori luoghi di discussioni per me rimangono occasioni come queste o i gruppi What’s App che ho con diversi amici e lavoratori del settore, persone con cui capita di vedermi e parlare di musica.
Ormai nella maggioranza dei casi si punta a farsi notare sulla pagina Instagram dell’artista o del magazine, senza discutere, ma solo farsi notare dall’artista e dagli altri fan con qualche commento strappalike che possa ricevere credito da chi lo segue.
A Pagina 75 citi Puff Daddy che campiona Sting e i Gemelli diversi, invece, che campionano i Pooh.
Al giorno d’oggi si nota una certa repulsione negli artisti a campionare i grandi classici della musica italiana, alcuni lo fanno ma altri virano sulla musica estera o al di fuori del genere di appartenenza, nonostante il campionamento in quanto tale sia alla base del Rap. Perché il pubblico non apprezza riascoltare i vecchi brani nelle nuove canzoni?
Penso per snobbismo o ignoranza, negli anni ’90 lo facevano gli Articolo 31 con i sample dei classici italiani con cognizione di causa, come gli americani campionavano il blues per esempio.
Era una pratica molto hip-hop nonostante anche all’epoca il pubblico li ha massacrati.
Anche questa nuova moda di invitare featuring esteri nei dischi non ha molto senso dato che buona parte degli artisti che vengono invitati qui in Italia li conoscono in quattro, tipo French Montana o Tony Lanez per dirne alcuni; è una pratica che non porta a niente né in Italia né tantomeno in America o all’estero, è solo libidine personale per l’artista.
Ti ringraziamo tanto Matteo per la lunga chiacchierata, ti facciamo l’ultima domanda: vuoi dire qualcosa ai lettori di Rapteratura?
Ascoltate la musica, andate ai live, seguite veramente i rapper, non i loro account Instagram, e leggetevi “Mio Fratello Guè “
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