Primo Maggio 2021. A Piazza del Popolo diluvia. Il pubblico è composto da una manciata di sparuti avventori che è riuscito a interpretare correttamente le disposizioni governative sugli assembramenti, sulle mascherine e sulla diffusione dei contagi. Il Covid non è ancora “solo un’influenza”, ma uno spettro che non troppo in lontananza si aggira per l’Europa. Sul palco del concertone è il turno di Fedez.
L’artista fa la sua esibizione, ma ad un certo, durante un intermezzo fa un discorso. Si schiera apertamente a sostegno dei lavoratori dello spettacolo, settore martoriato dalla crisi pandemica. Poi il discorso vira e Fedez comincia a parlare di minoranze, di comunità LGBTQ+, del DDL Zan: legge una serie di interventi pubblici, post sui social e twit di politici leghisti che (non ci stupisce) nei mesi precedenti si erano lanciati in dichiarazioni spudoratamente omofobe, discriminanti.
Fedez fa i nomi. Sì, fa i nomi. Fedez, neo-Pasolini con il berretto della Nike, Fedez, comunista col Rolex, fa i nomi e i cognomi dei parlamentari coinvolti, cita le fonti, riporta le date. Rivendica il suo diritto di artista di esprimersi liberamente sul palco più militante di Italia.
Furore di popolo. Uno sciame di querele da destra, lacrime di commozione da sinistra, e tanta indignazione sui social: come è possibile che un imprenditore multimilionario, il volto promozionale di Amazon (azienda tristemente nota per le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti) si schieri prima a sostegno dei lavoratori dello show – business per poi diffamare la malcelata omofobia della destra populista. Cosa può saperne un tipo così di oppressione, lui che gira in Lamborghini per le strade del Citylife?
I nodi vengono al pettine, e niente torna. L’opinione pubblica cerca risposte, ma un personaggio come quello di Federico Lucia, risposte non vuole darne, perché non è questo il suo ruolo. La dialettica però, sembra sempre la stesa: Fedez si mette nell’occhio del ciclone, fa affermazioni scomode, si espone mediaticamente con gesti eclatanti; la stampa e le piattaforme social alimentano il dibattito che arriva sulle bacheche dei politici, nelle aule parlamentari; ma il rapper è lì pronto dietro l’angolo con una difesa da manuale: “in questo momento storico, la politica italiana avrebbe questioni molto più urgenti da affrontare, piuttosto che parlare di me”.
Mettersi al centro della scena, per poi fare due passi indietro. Indicare la luna, ma volere che la gente in qualche modo guardi il dito. Contraddizioni su contraddizioni sembrano definire il profilo di un trasformista, un manipolatore del parere popolare, pronto a farsi carico di grandi battaglie sociali, ma allo stesso tempo ammanettato con la grande imprenditoria nazionale, con i suoi interessi da tutelare e accrescere.
A leggerla in questi termini, sembra di rivedere la parabola politica di un Matteo Renzi, scaltrito dal mandato come segretario del PD, ma interlocutore privilegiato dell’ultimo Berlusconi: Renzi che, come diceva Fedez nel 2015, “si spaccia per moderno, ma è vecchio come la lotta di classe”, e Fedez che, come diceva Renzi nel 2021, “è un semplice influencer, che non sa di cosa parla”.
Quel concerto, quel discorso e le polemiche che ne derivarono alimentarono i timori dei alcuni e le speranze di altri, addolcendo un pensiero che moltissimi cominciavano a coltivare, ma che nessuno condivideva ad alta voce, per paura, per goliardia, o solo per il fatto che le cose, a dirle ad alta voce, va a finire che si avverano. Ne parlammo anche in redazione. Quell’idea intrusiva si concretizzava però in una domanda chiara: ma se Fedez scendesse apertamente in politica?
Qualche mese dopo, nel novembre del 2021, sarebbe circolata la notizia che una società appartenente a Fedez avesse comprato un dominio sul web dal nome inequivocabile: fedezelezioni2023.it. Ma è un’altra storia, che qualcuno in redazione saprà raccontarvi meglio di me.
Da “Penisola Che Non C’è” a “Pop-Hoolista”, Fedez in una sola parola.
Il rapporto di Fedez e la politica sembra essere una ragnatela i cui fili si intrecciano solo parzialmente con la sua musica, ma che si ramificano a diversi livelli nella vita pubblica dell’artista, dalle dichiarazioni alle interviste, dagli interventi nei maggiori salotti politici televisivi fino alle aule nel tribunale.
In ognuna di queste dimensioni, l’attivismo civico e l’esporsi pubblicamente sui temi d’attualità sembra un segno marchiato sulla pelle di Federico fin dai suoi esordi. “Penisola che non c’è” è un disco intrinsecamente politico o meglio, è un disco profondamente hiphop, nel senso lato del termine: un progetto di controcultura, di critica sociale spiegata, di satira politica, di accuse a un sistema pubblico corrotto e apparente, immerso nella personalistica visione della cosa pubblica che Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del consiglio, aveva solidamente costruito nel suo ventennio.
I giornalisti: il quarto potere, si fanno tutti delle gran pere
Fedez – Penisola Che Non C’è (Penisola Che Non C’è, 2011)
Fanno finta di non sapere, il servilismo verso il potere
Il presidente va a puttane (Cambiano le parole)
“Bella Silvio latin lover”, troie, ministri ad honorem
Il progetto è dissacrante, un viaggio in controtendenza nel “Bel Paese” che nelle 13 tracce del progetto emerge come un parco giochi dell’orrore, dove l’utile e il guadagno personale vengono anteposto al bene dello Stato: corruzione, servilismo, oppressione giornalista e manipolazione dell’informazione.
L’Italia scompare nelle barre del Fedez di quel disco, che si fa spietato osservatore di un corpo civico assuefatto dalla televisione privata, dalle frivolezze e dall’intrattenimento spicciolo, più attento a inseguire il pallone sul campo da calcio che assumere una coscienza cittadina critica.
Ironico, sagace, pungente, ma soprattutto disinteressato: Federico è un ventiduenne che non ha nulla da perdere, che appunta i suoi strali su qualsiasi esponente della vita pubblica. Nella “Penisola che non c’è”, non c’è gerarchia sociale, non ci sono cariche politiche e timori reverenziali: le frodi fiscali, le feste ad Arcore, gli intrallazzi del Cavaliere diventano lo specchio che Fedez pone di fronte all’Italia intera, quasi a volerla indurre a indentificarsi nel suo primo rappresentante. In questo senso, il disco di esordio del rapper è totalmente orizzontale.
Non c’è problema per le troie sopra il jet presidenziale
Fedez – Contenuti (Penisola Che Non C’è, 2011)
Il problema è che dopo le candidano alle primarie
E le TV che trasmettono malattie ereditarie
Questa è la mia nazione e le sue persone straordinarie
Qui tutto resta fuori, qui tutto resta in gioco
Riascoltare quel disco è quasi straniante, soprattutto se poi si sovrappone la dialettica politica della “Penisola che non c’è” al magnate che è salito sul palco del primo maggio. Cercare una continuità viene spontanea, e forse trovarla non è neanche troppo difficile.
Se il Federico di “Penisola che non c’è” si trovasse a parlare con il Fedez del Concertone avrebbero sicuramente qualcosa da dirsi: in entrambi sembra esserci una forte emergenza espressiva che non ha paura di scendere a compromessi, in entrambi continua a brillare l’audacia di non nascondere i nomi, i colpevoli, i fatti. Il filantropo del Concertone però è più ammanettato: nella fama, nei social, nei soldi, nelle contraddizioni che perseguitano chi si schiera dalla parte degli ultimi, pur essendo il primo dei primi. Resta lecito chiedersi, però, se i due si riconoscerebbero e la risposta è probabilmente no.
Forse l’ultimo Fedez accuserebbe sé stesso di essere un radicale idealista, acerbo e immaturo; il Federico degli anni ’10, invece, guarderebbe la propria proiezione futura con gli occhi scettici con la quale si guarda un agitatore di comizi, un fomentatore di folle. In una sola parola: un populista. Populista. Bisogna seguire tutte le lettere di questa parola per riuscire a trovare un compromesso tra il 2011 e il 2021, scorrere l’intero lemma sul dizionario per trovare il punto di incontro tra la “Penisola che non c’è” e quel che sarà “Disumano”.
“Pop-Hoolista” è un disco strano, perché va in tutte le direzioni. È il disco di “Magnifico” e di “Amore Eternit”, ma anche quello di “Veleno per Topic”. C’è tutto: c’è la radio, c’è la discoteca, c’è il rap, c’è la critica sociale di “Voglio averti account” e “Generazione Boh”. Pop e rap, dance e house: “Pop-Hoolista” è populista, parla alla pancia, è trasversale, cerca consensi, trova da un lato una folla urlante pronto ad accoglierlo e dall’altra una folla urlante pronto a linciarlo. ù
Non ci sono sfumature: che lo odino o che lo amino, basta che ne parlino. Dire che “Pop-Hoolista” non sia un disco politico è un’evidente menzogna, come testimonia già solo il titolo del progetto, che già nella sua intro ci mostra la sua ossatura.
Questo è il paese dove la gente non arriva a fine mese
Fedez – Pop-hoolismo (Intro) (Pop-Hoolista, 2014)
Ma si preoccupa che la batteria dell’iPhone arrivi a fine giornata
Qua conta soltanto l’apparire
E sono più i senza tetto che i senza tette
Qua la tv sembra un centro di igiene mentale
E la politica un centro di igiene dentale
I versi sembrano venir fuori direttamente da “Penisola che non c’è”, per la loro carica corrosiva, per la loro sfacciataggine, per l’irriverenza dei suoi contenuti e difatti tutto il disco sembra un parente lontano di quel primo progetto così tremante, anche se tra i due ci sono delle evidenti differenze. In primis in “Pop-Hoolista” – come dice anche il titolo – c’è il Pop: un pop sonoro, che è anche un pop ontologico.
Fedez vuole piacere, vuole appartenere al Pop-olo, vuole arrivare alle orecchie di tutti, parlando alla pancia di chiunque, far leva su ritornelli semplici, su melodie orecchiabili, su temi universalmente noti con riferimenti facilmente comprensibili. In secundis, pur mantenendo un impegno politico assoluto, “Pop-Hoolista” cambia il segno a “Penisola che non c’è”: se Federico a 22 anni era un ammasso rabbioso e irriverente, il Fedez del 2014 è disgustosamente sarcastico, accessibile, più condivisibile pur rimanendo profondamente scomodo.
Con “Pop-Hoolista” Fedez si immette nelle case degli italiani, pur mantenendo la sua carica eversiva. Allinearsi, per disallinearsi: dissacrare l’Italia mediocre, l’Italia assopita, l’Italia qualunquista e omologata senza che se ne accorga, facendola semplicemente ballare.
Con le tasse che ho pagato compravo mezzo senato
Fedez – Generazione Bho (Pop-Hoolista, 2014)
“Come si chiama la carica da parte dei poliziotti sui manifestanti?”
Cariche dello stato
Rinunci alla casa e alla villa con vista
Un italiano su tre rinuncia anche al dentista
Viviamo in condizioni pre-carie
Che molto presto diventeranno carie
È proprio nel giro di questi anni che Fedez si schiera più dichiaratamente con un partito politico, o meglio, con uno schieramento: il Movimento 5 Stelle. Apartitici, schegge impazzite nell’incravattato sistema parlamentare italiano, i pentastellati di quegli anni sono la satira di Beppe Grillo che sbraita e aizza la folla, la voce fuori dal coro che milioni di elettori non riuscivano a rivedere né a destra né a sinistra. Fedez è con loro, o meglio, sostiene apertamente di vedere una boccata d’aria fresca nel neonato movimento.
Non ci stupisce è proprio nella dialettica tesi e antitesi dei pentastellati che si muove tutto il rapporto di Fedez con la politica: Fedez allineato e disallineato, come i 5 Stelle così dentro e così fuori la politica. Fedez per il sociale, ma Fedez per le multinazionali, i 5 Stelle fuori da qualsiasi alleanza parlamentare, i 5 Stelle qualche anno più tardi alleati con la Lega per raggiungere una maggioranza di governo.
Nel 2015 sarà proprio il nostro rapper a siglare l’”inno” del Movimento, brano per il quale riceverà un’interrogazione parlamentare per vilipendio a causa di alcune barre su Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica uscente.
Anni dopo, nel corso di un’intervista con Alessandro Masala per Breaking Italy, Fedez chiarirà di come quel brano non fosse pensato per essere l’inno strictu sensu del Movimento, ma che fosse semplicemente una traccia prodotta in occasione di una manifestazione pentastellata a Roma, a cui, pur essendo invitato, l’artista non potette partecipare.
Nel corso della stessa intervista, Fedez, in realtà chiarisce anche i suoi rapporti con il Movimento, affermando di aver preso le distanze da quella realtà politica, che lo aveva coinvolto tra il 2014 e il 2015, in seguito a una delusione ricevuta con l’evolversi degli scenari politici. Conclude di non avere attualmente nessun contatto con gli esponenti del Movimento e di non essere interessato ad averlo.
L’esperienza politica dopo quegli anni diventa palese e latente contemporaneamente, oscillante tra momenti di pubblica esposizione e momenti di silenzio stampa, ma rimanendo in qualche modo sempre vicino alle questioni sociali più cocenti, dichiaratamente dalla parte delle categorie sociali marginalizzate, sostenendo con finanziamenti e supporto realtà di volontariato più o meno in vista, ma non riuscendo mai a togliersi di dosso lo spettro del sospetto, del non detto, dell’illecito e del contraddittorio.
Seguire la parabola di questo impegno politico vuol dire scontrarsi con passi indietro, passi avanti, affermazioni e smentite, fili di un trasformismo naturale se si considera che stiamo parlando forse del personaggio mediaticamente più rilevante che l’Italia abbia conosciuto dall’inizio dell’era social.
La musica, come si può notare, in questo discorso riveste un ruolo solo collaterale, come uno degli strumenti utilizzati per coltivare un impegno politico che non è mai stato né di totale disimpegno né di totale impegno, ma tenuto costantemente nel mezzo, tra l’ordine e il disordine.
In questo labile equilibrio sta Federico Lucia, che pur rimanendo dietro le quinte della politica italiana, resta perfettamente consapevole di avere più potere mediatico di qualsiasi individuo che occupa formalmente uno scranno parlamentare: una mano invisibile, ma in una posizione privilegiata, coinvolta in prima persona, ma senza macchiarsi direttamente. Ma, in fondo, questa è la forma della democrazia italiana del XXI secolo: siamo tutti uguali, ma Fedez è più uguale degli altri.
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