Avete presente la sensazione che si prova dopo un tuffo in mare, a largo, o in una piscina profonda? Quando, dopo esserci buttati, arriviamo sotto sotto, senza ancora toccare il fondo? Quando dopo aver guardato verso l’alto vediamo la luce del sole e con un briciolo di panico, ci rendiamo conto che ci manca l’aria e, sbracciando, abbiamo fretta di risalire? Ecco, “Blu Celeste”, il primo album ufficiale di Blanco, pubblicato venerdì 10 settembre 2021 allo scoccare della mezzanotte, fotografa proprio questo momento appena descritto.
Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco, classe 2003, nasce a Calvagese della Riviera, un piccolo centro di poco più di 3500 persone in provincia di Brescia, a pochi km dal lago di Garda per intenderci.
Se la città offre le opportunità, il paese offre gli affetti, degli spazi tranquilli in cui crescere con gli amici ascoltando il punk rock e i mostri sacri del cantautorato italiano, è così che Blanco è venuto su.
Qualche pezzo su SoundCloud, una manciata di brani su Spotify quando me lo fece ascoltare un mio amico, niente di più. Ad aver portato Blanco sotto gli occhi, e nelle orecchie di tutti, sono state La Canzone Nostra, in collaborazione con Mace (che, stando a quanto ha detto, ha scoperto casualmente Blanco tenendo la musica in riproduzione casuale mentre si faceva la doccia) e Salmo, e Mi Fai Impazzire con Sfera, una delle hit dell’estate 2021. Nemmeno il tempo di metabolizzare la sua esplosione mediatica, pubblica il primo album ufficiale “Blu Celeste”.
La domanda che sorge spontanea, e a cui cercheremo di rispondere è: come ha fatto Blanco a monopolizzare di già le classifiche? Perché piace così tanto?
Blanco, se lo classifichiamo già come artista mainstream, è un artista post-trap, ossia un artista emerso alla fine della parabola di sviluppo del sottogenere rap, e in quanto tale, risponde alle circostanze culturali del tempo in una maniera totalmente antifrastica a quella trap.
Se chi si accingeva a far musica trap metteva in particolare evidenza le problematiche legate alla vita di strada, i crimini, lo spaccio, la rivalsa sottoforma di ostentazione opulenta, Blanco, in maniera del tutto oppositiva, sente il bisogno di riconnettersi alla natura ancestrale, allontanandosi dal tessuto urbano e si spoglia, nel senso letterale del verbo, di tutto: invece di posizionarsi in strada per raccontare la vita di un segmento di popolazione, si mette a correre, nudo, in mezzo ai boschi, per quietare i disturbi interiori che attanagliano esclusivamente sé stesso.
“Blu Celeste” parte proprio da tutto ciò, come spiega nell’intro “Mezz’ora di Sole” e come fa intendere già con la copertina. Ciò che viene raccontato è uno spaccato di ciò che ha provato tra qualche errore e lo slancio verso una ripresa: riprendendo la metafora iniziale, l’album traduce in musica la spinta che ci si dà dopo aver toccato il fondo per ri-sbucare finalmente a respirare in superficie.
Il disco, oltre a presentarsi come un importante simbolo per la generazione millenial, ha il grande pregio di essere composto da 12 tracce che, se escludiamo “Figli di Puttana” perché co-prodotta da Michelangelo e Greg Willen, non vedono nessuna collaborazione.
La mancanza di featuring, che avrebbero fornito un grande cuscinetto in termini di streaming, rompe la regola di mercato ampiamente diffusa, conferisce maggiore credibilità all’artista e rafforza l’idea sopra esposta di raccontare soltanto sé stesso immolandosi e diventando per gli ascoltatori l’unico tramite funzionale alla condivisione di esperienze comuni.
Contrariamente a come viene etichettato, Blanco, di rap non ha nulla ma, di riflesso, essendo immerso in un fertile panorama musicale quasi interamente innaffiato dalla matrice urban, pur non rispettandone gli stilemi, la metrica o il set vocale, riceve un’attitudine e un approccio alla scrittura figlio dell’ambiente hip hop.
I suoi urli ansimanti, mezzi cantati, privi di qualsiasi schema musicale, ricordanti le pulsioni più selvagge, danno voce alla sovversione, all’istinto e alla ragione di un adolescente che si avvicina alle prime forme di autocoscienza, di maturità, a tratti stereotipate, ma va bene così, avranno modo di crescere insieme a lui e insieme alla sua fan base.
Tematiche come la solitudine, il primo amore, il superamento di momenti depressivi legati alla scomparsa di qualcuno caro (“Blu Celeste”), vengono affrontati con gli strumenti mentali di un adolescente in fase di maturazione; ma ciò che riesce a renderli diversi, identitari, singolari ma condivisibili è la giusta valorizzazione del lessico, l’imposizione del timbro, le giuste pause tra una parola e l’altra e il modo, a volte poco chiaro, che adotta nel pronunciare le frasi. Blanco spinge ad affinare l’udito, mettendo in moto un processo di decodificazione che avvia uno sforzo cognitivo. Descrivendo le sue situazioni così vividamente, con immagini nitide, comuni, e caricando di senso ciò che dice, l’artista è in gradi di comunicare bene per sé stesso, con i suoi coetanei e con i più grandi che, dedicando mezz’ora di tempo all’album, sarebbero in grado di avere un ritratto, seppur vago, di un millenial.
Merita più attenzione di quanta gliene viene data Michele Zocca, classe 1994, a.k.a. Michelangelo, il corpo fisico del progetto, colui che mette le ali a Blanco.
Il producer, che potrebbe tranquillamente il fratello maggiore dell’artista vista la differenza d’età, aveva già alle spalle un folto curriculum lavorativo che conta collaborazioni con altri artisti già affermati (Renga, Annalisa, Madame, Benji & Fede, Paola Turci) ma una volta conosciutosi con Blanco tramite il suo manager è scoppiato un feeling tale tra i due che li rende quasi una persona sola: come viene riportato nell’intervista su Rolling Stones, quando Michelangelo si muove in studio, è come se lo facesse Blanco stesso.
Il giovane compositore si è occupato di produrre, mixare e masterizzare l’intero prodotto e a lui si deve l’intelligente destrutturazione del punk accostato ai synth degli anni ’80, all’elettronica, al contemporary R&B. Michelangelo, nell’intero disco, ha dimostrato di avere la grande dote di saper dare al suono una componente, di pari passo con la voce del ragazzo, sporca, grezza ma al contempo originalmente sofisticata.
Prodotto delle major deciso a tavolino o no, poco importa, escludendo i giudizi di valore puramente soggettivi, Blanco ha saputo attirare e catalizzare l’attenzione verso di sé nel migliore dei modi: ora una platea intera sta assistendo alla sua completa emersione, emotiva e professionale, nel mondo mainstream, intanto noi proviamo a dare tempo di vivere al disco. Scarichiamo di aspettative l’artista e lasciamolo sfogare come meglio crede, concedendogli la libera possibilità di sbagliare, perché a 18 anni ne ha più che bisogno.
Di Riccardo Bellabarba
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